Azzurro

Cari amici, una giornata particolare come quella di oggi per farmi risentire e parlare di violenza di genere attraverso gli occhi bambini di Marina.
Buona lettura a tutti
A presto
Lucia

 

 

Azzurro

 

Marina continuò a guardare attraverso le fessure dell’avvolgibile di legno, contandone gli spazi luminosi senza arrivare a una fine certa, per poi ricominciare da capo. Quel pomeriggio il suo giochino solito le sembrava un esercizio troppo difficile da portare a compimento. Al di là della porta sottile, troppo sottile per le sue orecchie, sentiva la voce alterata di suo padre e quella concitata di sua madre. Stavano parlando ad alta voce. Parlavano spesso, ultimamente, ad altissima voce e a lei questo non piaceva. Provò a nascondere la testa sotto il cuscino, inutilmente. Quella strategia non funzionava affatto. Troppo alti i toni di quella conversazione per poter essere smorzati da pochi grammi di gommapiuma. Non le restava che fare una cosa, la solita.

Con sveltezza e abilità s’infilò dalla testa il vestitino a giromanica di cotone profilato di edelweiss e, stando attenta a non fare più rumore del dovuto, aprì la porta e si trovò nel corridoio, lungo e in penombra, che piegava in fondo a sinistra prima di condurla all’ingresso di casa. Con le ciabattine di stoffa sfiorò appena le mattonelle di pietra, trattenendo il fiato mentre arrivava in prossimità della cucina. La porta di quella stanza era accostata, abbastanza aderente allo stipite per permetterle di oltrepassarla inosservata. E fu quello che fece, non senza prima essere bombardata da brandelli di conversazione concitata, astiosa.

– Me ne vado, capito? Faccio la valigia e vado via, hai sentito? Mi hai rotto, mi avete rotto tutti …  – recitava la voce maschile, quella di suo padre, in preda ad un attacco d’ira incontenibile, irrazionale.

– Aspetta, non fare così … – era la risposta smorzata di una donna, sua madre, affannosamente intenta a smussare i toni di quella che era oramai diventata una contesa senza fine. Era così da giorni, da mesi. La stessa, identica storia; lui che minacciava di partire e lei che, dolente, cercava di calmarlo, di farlo ragionare, di trattenerlo con tutte le sue energie. E loro tre, Aldo, Marina e la piccola Betta nello stesso letto, stretti l’un l’altro a confortarsi a vicenda e a sperare che quel fiume in piena di parole amare, inconcepibili, tristissime finisse presto di tracimare e raggiungere, impregnandole di dispiacere, le loro anime di bambini smarriti.

Quel pomeriggio i suoi fratelli erano però stati graziati ed erano andati al mare con gli zii. Unica beneficiaria di tanta gratuita veemenza verbale era stata lei e soltanto lei. Che, adesso, sperando che la porta di casa non cigolasse troppo, era ben determinata a conquistarsi una piccola oasi di pace in cui potersi rifugiare almeno per un po’. Prima di tornare in quella lotta senza quartiere che stava purtroppo connotando la sua quotidianità.

Erano solo due rampe di scale, fatte due gradini alla volta. Pochi metri di cemento e marmo che diventavano il suo ponte verso la libertà.

Sapeva che erano svegli dopo la siesta che li impegnava in qualsiasi stagione dell’anno. E che l’aspettavano. Per lei la loro casa era sempre aperta. Si chiese se anche loro avessero avvertito tutto quell’ inutile e forsennato clamore. Di quei litigi in sua presenza non se n’era mai fatto cenno. Non un commento, non una parola di biasimo per un genero così irascibile, né una domanda per quello che succedeva ad appena un piano di distanza. Forse era meglio così. Era già troppo mortificante incontrare lo sguardo degli altri abitanti del palazzo. Compassionevole e terribilmente curioso. Di gente che sa ma che fa finta di niente a cui basterebbe ben poco per provare ad approfondire la questione, anche con una bimba di otto anni come lei. Marina non voleva affatto essere compatita. Voleva essere uguale a tutti i bambini del quartiere. Voleva essere amata e accettata. In un caldo e confortevole bozzolo d’ affetto come soltanto i suoi nonni materni avevano il potere di avvolgerla.

– Marina, entra cara

La nonna aveva capelli striati di grigio e occhi che un tempo erano stati verdazzurro ma che adesso avevano assunto la colorazione del mare al tramonto. Lei spesso la chiamava la sua fata Turchina, come quella di Pinocchio. Tutti dicevano che da giovane era stata una gran bellezza e lei ci credeva e pendeva dalle sue labbra quando l’altra le raccontava storie di tempi passati, rendendogliele vive e presenti con la sua mimica e la sua abilità a descriverle. Poi c’era il nonno, baffi e capelli bianchissimi e occhi brillanti color cioccolato dal portamento fiero. Anche questa volta era intento a centellinare a piccoli sorsi una tazzina di caffè con tantissimo zucchero, troppo per i gusti di Marina. Un assaggio per lei, però, c’era sempre; e lei, grata, lo accettava, evitando di porre l’accento su quel particolare insignificante, immensamente felice per la sacralità di quel rituale a cui era stata ammessa senza riserva che cercava di stemperare di serenità  il suo ordinario ultimamente così tormentato e burrascoso. Una routine che le dava pensiero e le toglieva il sonno e l’appetito, lei già così magrolina e sottile, conferendo ai suoi occhioni castani un’ombra di maturità precoce e intempestiva come una nevicata di aprile su germogli verdi e teneri appena spuntati.

Se avesse potuto si sarebbe trasferita lì, in pianta stabile da loro. Ma non si poteva. Suo padre non vedeva di buon occhio che lei trascorresse troppo tempo dai nonni. E lei stentava a capirne il perché, percependo soltanto l’ingiustizia di quella proibizione che riteneva insensata e immeritata.

Una volta aveva chiesto ai nonni di comprarle una scatola di pennarelli colorati. Ricordava di aver toccato il cielo con un dito. Per lei disegnare era una delle cose che preferiva e che la riconciliava con le tante incongruenze che la circondavano, una delle sue passioni segrete, quasi quanto leggere libri. Le erano venute le lacrime agli occhi quando suo padre glieli aveva tolti con la scusa che servivano soltanto a sporcare. I pastelli a matita che lei possedeva andavano benissimo per lo scopo. A nulla era valsa anche la mediazione della mamma che, ripetutamente ma inutilmente, aveva cercato di farlo ritornare sui suoi passi. Lei si era tappata le orecchie ed era corsa in cameretta disperata e quella sera la solita manfrina aveva fatto da sottofondo anche alla cena. Poi, di nascosto, aveva scritto un biglietto che, sempre furtivamente, aveva imbucato nella cassetta delle lettere dei nonni in cui si scusava: non sapeva se il giorno successivo sarebbe potuta andare da loro come al solito oppure no.

Gli occhi del nonno, nel mostrarglielo un paio di giorni dopo, erano stati fermi ma forse un po’ più lucidi del solito. Lui le aveva detto che quel biglietto li aveva dispiaciuti e tanto e Marina, se possibile, si era sentita ancora più piccola, stretta tra l’urgenza e il bisogno di dare e ricevere da loro quell’ affetto che per lei era aria  sole e pioggia e il senso del dovere che la legava all’altro uomo della sua vita, suo padre.

Quel pomeriggio, però, aveva deciso di fare a modo suo. Era pronta a subirne le conseguenze, di qualsiasi portata esse fossero. Aveva troppa necessità di una boccata d’ ossigeno leggera e fresca.

Il suo palmizio preferito era una vecchia dondolo di paglia di vienna, foderata di un materassino un po’ acciaccato che attutiva poco la durezza dei lati e altrettanto poco serviva a colmare gli avvallamenti della zona centrale dovuti ad un uso frequente di adulti e piccini. Ma a lei non importava. Per lei quella vecchia sedia impersonava la compiutezza e la perfezione di un pezzetto di paradiso in cui poter sprofondare nel suo passatempo preferito, la lettura, attingendo a piene mani dalla libreria del nonno ricca di libri per ragazzi ordinatamente foderati di carta cerata, lucidissima, bianca a strisce blu, posizionati accanto ad altri volumi dall’aspetto serioso, imponente. Letture per grandi, da sbirciare con reverenzialità e da lontano. Tutto sommato per lei al momento di scarso interesse. Le pareva un pozzo senza fondo, quella libreria. Pieno di tesori inesplorati.

E poi c’erano i wafer alla vaniglia o i cioccolatini della nonna, con cui, sapeva, avrebbe potuto inframmezzare gioiosamente il suo svago, lasciando qualche piccola impronta marrone sulle pagine sfogliate con impazienza. Certa che nessuno l’avrebbe rimproverata per quello, né le avrebbe inferto punizioni tanto esemplari quanto incomprensibili.

Quel giorno, però, la nonna a sprezzo della calura incombente aveva pensato a qualcosa di più consistente. Nel tinello, sul tavolo quadrato lucido di legno antico ad attenderla

c’erano due fettine di pane imburrato e cosparso di zucchero. Una bontà e una gioia per gli occhi e per il palato. Marina sorrise, definitivamente rasserenata. La nonna era speciale, sempre. Fuori, nell’afa estiva che non accennava a placarsi, una radiolina trasmetteva una canzone che piaceva molto a sua madre e a lei. Masticando piano l’ultimo boccone della sua merenda Marina chiuse gli occhi per ascoltarla pian piano, prima di riprendere a leggere.
Cerco l’estate tutto l’anno

e all’improvviso eccola qua
E lei è partita per le spiagge

e sono solo quassù in citta
Sento fischiare sopra i tetti
un aeroplano che se ne va

Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
e lungo per me

mi accorgo
di non avere più risorse
senza di te

E allora

io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te …

 

Una vacanza con i nonni, sarebbe stato bello, si disse, sorridendo.

Un condominio di periferia in città fatto di pochi appartamenti in cui era fin troppo facile sapere tutto di tutti. Un tinello raccolto e familiare,  luce e calore esterni attutiti da una tenda scura e pesante, penzoloni oltre l’ampio balcone. Le teste di due persone anziane chine sulle rispettive occupazioni, di cucito per lei e di contabilità per lui, l’uno di fronte all’altra. Tra di loro, una figura minuta di bimba con due treccine castane infilata in un abitino estivo abbottonato in fretta e guarnito da una gala di stelle alpine al fondo. Fuori, in lontananza, rumori di umanità impazzita.

Schermata, assorbita ed esorcizzata da gesti dettati da un cuore saggio e gentile per occhi simili a laghetti di montagna riflessi di cielo pulito. E labbra bambine desiderose di vita vera cosparsa di granelli di zucchero.

Ancora pochi attimi di beatitudine.

Prima del sopraggiungere rabbioso di un’ambulanza, di una corsa concitata su per le scale, di gente che finalmente aveva deciso di aprire la porta di casa per assistere, oramai impotente, a quell’ ultimo atto di ordinaria follia.

Di uno scampanellio estraneo a quella porta di anziani, quasi impacciato nella sua connotazione di notifica. Forse per la consapevolezza estrema di sapere di dover fermare il tempo, per sempre e inesorabilmente, per quelle tre anime e per altre ancora.

– C’è stata una disgrazia, sua figlia … al secondo piano …

Per alcuni quella vicenda sarebbe rimasta solo un titolo di prima pagina alimentato da qualche commento distratto al supermercato. Avrebbe fatto notizia per qualche giorno e poi sarebbe sfumata via per confondersi nella memoria collettiva di un pomeriggio d’estate assolato e troppo breve.

Marina avrebbe ricordato a vita quella canzone ripensando al retrogusto dolceamaro di quella strofa finale:

Ma il treno dei desideri
nei miei pensieri all’incontrario va

 

Non più cieli azzurri senza nuvole. Non l’avrebbe più cantata insieme alla mamma, quella canzone; la sua voce sottile di bimba, allegra, mescolata a una voce femminile adulta, stemperata di malinconia e rimpianto.
La sua piccola mano stretta con la forza della disperazione da un’amorevole mano di donna.

Lucia Guida

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shot by Anastasiya Chernyavskay