Ricette d’Autore: lu “Canestredde”

Tempo di vacanze pasquali e di sapori e profumi d’antan.

La mia proposta culinaria di oggi è quella di un dolce appartenente alla tradizione pugliese, lu canestredde, fiore all’occhiello del fare sapiente delle donne garganiche. A me riporta in mente tanti ricordi legati alla mia infanzia, facendomi pensare agli acquisti golosi di mio padre fatti in un forno antico del suo paese di origine. Alle “Fracchie”, un rito religioso molto suggestivo che ha connotato tanti venerdì santi della mia vita. Ai miei zii e ai miei nonni paterni, legati per devozione a questa celebrazione dolente. All’odore di legna bruciata e alla fuliggine che immancabilmente impregnava gli abiti di noi spettatori al passaggio di queste gigantesche torce in processione per il corso principale di S. Marco in Lamis (FG).
La ricetta da me realizzata è stata presa anni fa in web. Chiedo venia se non sono riuscita a risalire al suo autore.
A voi tutti buona lettura, buone cucinette, come si dice in Abruzzo, e auguri di serenità e salute.

Lucia.

Lu Canestredde

Ingredienti:

  • 600 gr. di farina 00 (potrebbe servirne un po’ di più se l’impasto risulta troppo morbido)
  • 4 uova intere più un albume per la guarnizione finale
  • 250 gr di zucchero semolato
  • 50 gr di olio evo
  • 60 gr di latte intero
  • 1/2 cubetto di lievito di birra
  • la buccia grattugiata di un limone bio

Preparazione:

Amalgamare bene la farina con il lievito di birra sciolto nel latte appena tiepido, le uova (sbattute a parte) lo zucchero, il latte, l’olio e la buccia grattugiata del limone. Impastare benissimo, lavorandolo molto su una spianatoia, il composto ottenuto e lasciarlo lievitare per una notte intera. Dare, quindi, al dolce la forma di una ciambella o di una treccia (in questo caso si provvederà a dividere in tre parti il composto e a unirle). Lasciar riposare in teglia il dolce per un’altra mezz’ora e poi spennellarlo in superficie con l’albume preparato in precedenza. Cottura in forno statico preriscaldato a 180° per circa 40′ (ma potrebbe volerci tempo in più, il mio consiglio è di tentare con uno stuzzicadenti l’impasto per accertarsi che si sia cotto bene).
Lu Canestredde è un dolce molto semplice, ottimo per la prima colazione o farcito con della marmellata per una merenda veloce. Nei tempi che furono era parte essenziale del pranzo di Pasqua. Una gioia per gli occhi e per il palato allora come ora.

La citazione:

“Cum lenitate asperitas”
motto pubblicitario di G. D’Annunzio


Canestredde realizzato da Lucia, marzo 2021

Piccole cose di pessimo gusto

Tempo fa in una delle mie gironzolate in web sono arrivata a conoscenza della presenza del mio primo libro edito, una silloge di racconti intitolata “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile”, Nulla Die (2012), in formato pdf ma anche epub ed emobi previo registrazione su più di un sito straniero. Ovviamente nessuno mi ha chiesto il permesso di poterlo inserire né lo ha fatto con l’editore. Non saprei dirvi neanche se alla fine tutto questo possa essere ricondotto a un’operazione molto più elementare, finalizzata alla mera raccolta dei dati sensibili di coloro che, attratti dalla promessa di poter scaricare gratuitamente materiale di varia natura, accettano di loggarsi inserendo i propri dati.
Ho, però, pensato di proporvi qualcuna delle sei storie della raccolta ancora inedite quanto meno virtualmente. Mai, cioè, diffuse da me a mezzo digitale.
La mia prima proposta di lettura è una storia intitolata “Piccole cose di pessimo gusto”, scritta e arrivata in finale in un concorso letterario di un po’ di anni fa prima di essere data alle stampe. È la storia di Celeste, attempata proprietaria di un negozio di articoli usati e di modernariato che dalla prospettiva privilegiata delle sue vetrine guarda al suo personale microcosmo e ai personaggi che lo popolano con leggerezza, ironia e grande indulgenza. Accanto a lei Willy, compagno inseparabile delle sue giornate, e il fluire lento ed equilibrato della vita  “come acqua di fiume che va al mare”.


Piccole cose di pessimo gusto

Il mio tè al bergamotto corteggiata da Willy che mi gira intorno aspettando paziente di ricevere come di consueto il suo pasticcino è il primo piacere della giornata. Davanti alla porta finestra del tinello, lo sguardo attento al viavai discreto che anima di prima mattina questo corso di provincia, intervallato simmetricamente a destra in banca da platani secolari, ora ricoperti di fogliame e inflorescenze grazie a una primavera prodiga che non ha mancato al suo appuntamento. Seminascosta da un ramo più folto degli altri c’è la mia botteguccia di piccole cose di pessimo gusto. Attraverso le maglie larghe della serranda si lascia intravedere con ingenua sfrontatezza tra le saracinesche massicce dei negozi che la circondano, dotate di sofisticatissimi antifurto e di altrettanto imponenti chiusure interrate. Scegliere di proteggerne la vetrina con questa sorta di armatura non è stata decisione facile; la percezione di forzare quasi, con questa imposizione, gli infissi una volta laccati d’azzurro, ora sbiadito celestino, e la stessa insegna di legno dipinto che non ho mai aggiornato, una di quelle che una volta usava difficili ora da trovare in giro, mi ha perseguitata a lungo. Eppure ho dovuto arrendermi al progresso e alla necessità; la mia unica consolazione è che ben tirata in alto scompare quasi nell’intercapedine del muro e almeno fino all’ orario di chiusura serale posso fingere che questa bottega sia rimasta la stessa di 30 anni fa, quando volendo imprimere una svolta decisiva nella mia vita ho deciso di aprirla, rilevandola dagli eredi impazienti di un robivecchi passato serenamente a miglior vita. Quasi le sette e trenta. Rebecca, zainetto semivuoto in spalla, attraversa la strada diretta alla fermata dell’autobus. Senza motorino, come a volte capita. Sua madre deve essere fuori città altrimenti tra una reprimenda e l’altra non avrebbe mancato di darle un passaggio. Ed ecco sopraggiungere a ritmo serrato il ragionier Romoletti, volpino al seguito virgola di corvée già di primo mattino. Per poter scorgere anche la biondissima Ewa Ruslanova, terzo piano interno sei, e completare quindi l’appello dei miei beneamati coinquilini dovrò aspettare ancora un po’. Afferro le mie cose e mi appresto a scendere in negozio, cercando di fare mente locale ordinando per priorità le tante incombenze che mi aspettano. Willy mi precede con sveltezza, avendo di tanto in tanto il buon gusto di voltarsi per accertarsi che lo segua. Abito in questo palazzo dalla nascita, avvenuta un po’ di che decenni fa ma sfido chiunque a indovinare la mia età. Tutti mi conoscono come la signorina Celeste dell’interno due del secondo piano; una sorta di istituzione, amata e al contempo cordialmente detestata per la controversa abitudine che ha di farsi gli affari altrui. Accanto a me Rebecca e la sua famiglia. In realtà la loro è più che altro una triade che si scompone e ricompone a ondate, quando il capofamiglia, uomo in carriera giacca, cravatta e cellulare di ultima generazione alla mano, viene deposto davanti al portone dai pesanti battenti di bronzo da uno dei tanti taxi gialli cittadini. Il tempo di trattenersi qualche giorno inframmezzando la propria comparsa con performance sportive all’alba in tuta al vicino parco e inviti a cene di rappresentanza con sua moglie Agata. Fino alla prossima partenza da quello che probabilmente per lui è diventato una sorta di box ove ricevere assistenza e cure essenziali prima di riprendere a gareggiare in pista. Da tempo Rebecca, loro unica figlia, ha deciso di non seguirli più e può capitare che da brava diciassettenne esca per proprio conto, a volte trasgressivamente abbigliata in compagnia di amici automuniti o sul suo scooter, casco ben calzato ma non allacciato sui capelli ricci, lunghi e ramati. Evidente che sia la ricerca di un baricentro che le permetta di contrastare vittoriosamente una forza di gravità spietata e invasiva. A spasso col mio Willy qualche tempo fa l’ho vista rientrare ora tarda a bordo di una di quelle macchinette inconsistenti simili ad automobiline in circolo sulla pedana della giostra di un’antica fiera di paese. Ci ha messo un po’ a scendere in bilico su tacchi vertiginosi stretta in un tubino nero e luccicante. L’ho udita ridere sonoramente ma non con gli occhi. Un ragazzo, sceso con lei, l’ha abbracciata con troppa cordialità prima di essere respinto scherzosamente ma con decisione. Pochi secondi per sfuggire anche un bacio preteso a tutti i costi con l’ultimo barlume di disinvoltura residua e un saluto blando con la mano. Poi la necessità di appoggiarsi pesantemente al muro color ocra del palazzo per una manciata di minuti, quasi a cercare sostegno, prima di frugare nella borsina per le chiavi e sparire inghiottita dall’androne buio di casa. L’ultimo riflesso dei lampioni sferici dalla luce aranciata me l’ha mostrata pallidissima sotto il trucco forte e pronunciato. Il giorno dopo Agata, tailleur e tacchi a spillo, è riemersa al mattino in solitudine, parlottando concitatamente al cellulare prima di saltare in macchina e partire a razzo. Lavora in un importante ditta ed è addetta alla selezione del personale. Dicono che sia molto brava in questo. Le chiamano cacciatrici di teste e forse lo sono davvero. Lampante che per lei il lavoro sia ben più che una fetta dell’esistenza; Certo è che come madre non credo riscuota ultimamente lo stesso successo E altrettanto chiaro è che ciò le dia enormemente fastidio. Rebecca in t-shirt e slip l’ha osservata a lungo allontanarsi nel traffico dai vetri del soggiorno minimal chic. Poi, guardando in basso, si è accorta forse della mia insistenza nel pulire la vetrina del mio negozietto e si è ritirata, sparendo dietro la confortante penombra di pesanti tende oscuranti sino al pomeriggio. Appena in tempo per evitare con un’uscita davvero tempestiva il rientro di sua madre assieme un ulteriore sequela di presumibili noiosissime recriminazioni. La mia vera spina nel fianco è tuttavia Maria Rinaldi in Romoletti, icona del peggior matriarcato che possa oggi sopravvivere con assurdo paradosso in una società in cui è e spesso bieco maschilismo e non altro a prevalere nel contrastato mondo delle relazioni interpersonali. Chiedo venia se non riesco a nutrire nei suoi confronti la benché minima ombra di indulgenza. Sposata con un figlio che di rado visita il lucidissimo quartierino al terzo piano in cui si è da tempo immemore insediata, ben presidiato da un paio di kentia fiorenti al lato del portoncino e da un penetrante odore di cera che ti avviluppa con forza già nell’attimo in cui varchi il portone d’entrata al pianterreno. Sarà forse una spiccata allergia al succitato prodotto, o più verosimilmente una sola intolleranza verso una moglie così intransigente a far trascorrere a suo marito, in pensione ormai da un paio d’anni, buona parte del proprio dilatatissimo tempo altrove? Giustificato ampiamente da un succedersi trafelato di commissioni di vario tipo interrotte tuttavia da ritirate regolamentari coincidenti con l’orario dei pasti. Certo è che i paramenti della sala da pranzo sono in continuo movimento, come agitati da un venticello dispettoso, nel sorvegliare di continuo entrate e uscite dei condomini da mane a sera. Manco a dirlo, io e Maria Romoletti da tempo navighiamo su imbarcazioni separate in un mare di costante bonaccia, impegnate a mantenere una sorta di tregua perenne in cui non vi è più posto come in passato per rivendicazioni veementi e scaramucce quotidiane. Lei sembra aver accettato il mio stato consolidato di singletudine; credo perfino abbia archiviato il ricordo di alcune mie discutibili e disdicevoli frequentazioni maschili pregresse. Tornare a essere donna onesta mi ha riabilitata al suo poco lungimirante sguardo placando la sua sete di gossip a buon mercato. Grazie anche a Ewa. Ewa che riceve nel suo appartamento distintissimo uomini in giorni feriali e festivi dedicati al relax pomeridiano, alla messa domenicale, allo spettacolo di varietà televisivo del sabato sera. Ewa biondissima e dalla silhouette invidiabile che nulla ha a che vedere con la sua pettoruta e panciuta dirimpettaia infagottata in abiti strizzatissimi che sfortunatamente lasciano pochissimo all’immaginazione mostrando più del dovuto i segni e lo sfacelo del tempo trascorso. Il fatto è che Maria si è messa in testa di competere con la giovane escort nell’istante in cui ha percepito (sia pure tardivamente!) un bagliore luccicante sospetto negli occhi nerissimi e mobili del suo consorte al passaggio della “signora delle camelie”, espressione quanto mai indicativa del climax di disdegno e pruderie da lei in merito raggiunti. Non so se Ewa sia al corrente di tanta palese disapprovazione. So soltanto che i suoi sorrisi sono tutti per Amedeo Romoletti e che quest’ultimo farebbe carte false anche solo per invitarla a prendere un caffè alla Premiata Pasticceria dell’angolo, se soltanto l’attività continua di pressing della sua ingombrante metà gli concedesse un po’ di sosta.
Ho conosciuto Ewa in un sonnolento pomeriggio estivo in cui la calura aveva suggerito a molti miei colleghi di non aprire bottega. Io ero la presa con abat-jour anni 50 che proprio non ne voleva sapere di sposarsi con un nuovo paralume di stoffa, tra i guaiti del povero Willy, infastidito dai miei sbuffi continui, e l’ansimare sofferente di un vecchio ventilatore che non mi decido mai a buttar via impegnato con decorosa fatica ad assicurarci un po’ di frescura e a sollevare anche un bel po’ di pulviscolo tutt’intorno. Lei ci aveva osservati a lungo dall’esterno oltre a rimirare le tante mercanzie disposte in artistico disordine sulle mensole di legno in vetrina; poi, presa da una sorta di impulso irrefrenabile aveva sospinto con decisione la porta d’entrata facendone tintinnare sgomento il campanello. Al mio benevolo assenso a vagabondare tra cumuli di anticaglie e oggetti di modernariato, la sua attenzione si era alla fine focalizzata su una tazzina da cioccolata disseminata di delicatissimi roselline dal tenue colore racchiusa in una teca con cui generalmente proteggo i miei tesori più preziosi. Il suo viso, quel giorno insolitamente prima del trucco sapiente a cui ci aveva abituati, si era di colpo rasserenato. Per un bel po’ avevamo conversato di samovar e tè preparati all’orientale e all’occidentale; della sua vita di bambina solitaria trascorsa in un casermone alla periferia di Kiev, di sua madre abbruttita dalle lunghe ore di lavoro in fabbrica e di un padre che non riusciva a liberarsi della curiosa abitudine di bersi tutta la paga settimanale in vodka il venerdì sera. Aveva rimarcato coraggiosamente ma con una forma di pudore latente quest’ultimo particolare della sua vita passata, per poi riprendere  vigore e consistenza nel dichiararmi con orgoglio di essere in possesso di una laurea in materie umanistico-letterarie con cui era arrivata in Italia prima di considerare di far fortuna in modo più veloce come accompagnatrice di lusso (in realtà si era definita disinvoltamente hostess e io e Willy, incantati da quel flusso interminabile di frasi, avevamo bonariamente avallato questa versione). Di punto in bianco a metà di un’altra complicatissima narrazione dei tempi andati mi aveva chiesto a bruciapelo il prezzo della porcellana. Pretendendo di non volere resto dalla banconota di grosso taglio poggiata con noncuranza sul vecchio registratore di cassa. Alla fine eravamo arrivate a un compromesso: la tazzina fiorata con piattino e un minuscolo sole di ottone beneaugurante che proprio quella mattina avevo terminato di lucidare a specchio con molto olio di gomito. Sarà stato un caso forse no, ma il lunedì successivo uno dei tre avvocati dello studio legale associato al primo piano, quello di fronte la compagnia assicurativa, aveva sospinto la porta del mio negozietto con garbo, chiedendomi di procurargli, se non mi era di troppo disturbo, un grammofono de “La voce del padrone”, naturalmente se non ne avessi già uno lì disponibile. Rispondendo negativamente alla sua seconda richiesta, gli avevo tuttavia assicurato che ne avrei fatto lo scopo primario del mio successivo giro domenicale per fiere di paesi e vecchi negozi di rigattiere. Poi gli avevo regalato a mo’ di anticipazione un disco in vinile inciso solo da un lato di un famoso tenore italiano. Una ghiottoneria da gourmet. Lui ne aveva a lungo accarezzato la copertina sbrindellata e ingiallita dal tempo e con un sorriso che gli aveva disteso il giovane viso abbronzato incorniciato da capelli neri precocemente brizzolati era andato via con passo più lieve ripromettendosi di ripassare a breve. Durante le nostre interminabili conversazioni telefoniche notturne, tipiche di tutte le persone che a un certo punto della loro vita cedono al vezzo di stentare ad addormentarsi, Norina mi ripete spesso che forse dovrei andare anch’io a vivere in campagna. Norina è mia sorella. Dopo essere rimasta vedova ha scoperto di avere una profonda vocazione per la preparazione di manicaretti gustosissimi, confetture marmellate di frutta, torte, pasticci in crosta e pane ammassato lievitato naturalmente. Ottenuto il placet di sua nuora si è stabilita nell’agriturismo aperto da suo figlio, prendendo a curare erbette e polli con una dimestichezza davvero insospettabile per una signora sino a poco tempo prima dedita unicamente alla coltura di gerani e calendule da balcone e alla cura di inoffensivi canarini in gabbia. A volte confesso di pensarci seriamente. Ci ho riflettuto a lungo mesi addietro dopo aver ricevuto a orario di chiusura una strana e inquietante visita; due personaggi singolari, a cui le mie cose di poco gran conto non avrei mai creduto potessero interessare, sono entrati nonostante avessi diligentemente posto il cartello in cui annunciavo che per quella giornata le vendite erano terminate. Hanno preso a gironzolare svogliatamente nel poco spazio libero non occupato dalle tante merci affastellate, alcune da me riportati al loro splendore originario altre semplicemente in attesa che me ne prendessi cura. Il più alto ha lasciato che fosse il suo amico a terminare quell’esame sommario, restando con le braccia conserte a scrutare i pochi passanti di quella brumosa serata di gennaio. Quest’ultimo, capelli abbondantemente cosparsa di brillantina o qualcosa di simile, a un certo punto mi ha sorriso in modo strano e, accendendo un cerino, l’ha lasciato cadere sul pavimento ai miei piedi, provocando l’abbaiare furioso del mio Willy che non avrebbe mancato di avventarsi indignato se soltanto io glielo avessi permesso invece di tenerlo stretto tra le mie braccia, batticuore contro batticuore. Alla fine con una smorfia mi ha salutata annunciandomi che loro sarebbero certamente ripassati prima di dileguarsi in strada. Fortunatamente l’episodio non ha avuto strascichi di sorta. Probabilmente la mia merce non ha risvegliato abbastanza la loro cupidigia o forse qualcosa li ha, almeno per il momento, spinti a cambiare idea.So come possono andare a finire certe cose. Il negozio di ferramenta di Remo, le pareti annerite dal fumo e  dalle fiamme a meno di un isolato più in là, è stato per tutti gli abitanti del quartiere un segnale forte e chiaro. Come dimenticare lo sguardo di sua moglie Elena, umido e sofferente, nell’atto di appendere un cartello di fittasi sull’unica vetrina rimasta integra dopo il fattaccio? È stato un vero miracolo che nessuno ci abbia rimesso più del dovuto E che soprattutto Remo si sia doverosamente ricordato di rinnovare la polizza antincendio scaduta soltanto alcuni giorni prima, lui così incline a procrastinare per atavica pigrizia e scarsa memoria incombenze di tal fatta. L’unica percezione chiara riguardo alla mia vita è ,tuttavia, almeno per ora, quella di continuare a vivere in questo quartiere una volta così brulicante di vita e di umanità fino a quando sarà ancora possibile farlo. Non mi sento talea come Norina; io al mio vasetto di coccio minuscolo, forse obsoleto e un po’ vetusto ci tengo ancora e non ho voglia di abbandonarlo per provare ad attecchire in terreni nuovi magari più fertili ma così lontani da questo microcosmo tagliato su misura addosso a me come una seconda pelle. So che l’acqua di fiume va al mare e che non è in potere di nessuno arrestarla o talvolta semplicemente deviarne il corso. Tuttavia può capitare di imbattersi in pezzi di legno o rami levigati dall’impeto della corrente o addirittura scavati e scolpiti mirabilmente. Veri e propri tesori della natura disseminati con apparente noncuranza dal destino sul nostro percorso perché ciascuno di noi possa, volendo, apprezzarli portandoli via con sé. Per rimirarli in compagnia di altri o semplicemente per accarezzarli con gli occhi alla fine di quelle giornate che molto hanno delle guerre di trincea combattute zolla dopo zolla con lo sguardo fisso all’orizzonte. Giorni addietro mi sono procurata un fantastico fonografo a valigetta per l’avvocato dal viso stanco. Ho anche pensato di regalarli l’altra tazzina da cioccolata compagna di quella decorata a minuscole rose azzurre che conservo nel retrobottega con cura. E farò in modo che Ewa sappia che c’è un’altra persona al mondo altrettanto degna di aspirare come lei a cose uniche e grandi. Forse è con lo stesso scopo recondito che ho nascosto un piccolo cristallo di rocca nel pacchetto dell’agendina in pelle acquistata da Rebecca per il compleanno di sua madre. Le terrà compagnia discreta allontanando da lei pensieri negativi e ombre minacciose, riportandola con levità ai primi soli di questa bella stagione, ancora una volta di ritorno, pur se con qualche incertezza, per rallegrarci con semplicità. Confesso di non aver studiato abbastanza il caso del povero Romoletti; credo che il suo sia un affare ben più complicato di quanto di primo acchito non appaia. Sarebbe bello chiudere sua moglie con la sua aria boriosa di ostentata sicurezza in una gigantesca bolla di sapone e, soffiando con dolcezza, spingerla lontano sino al punto di non ritorno chiedendo al vento di portarla via con sé definitivamente. Credo purtroppo che ciò non sia al momento possibile. Ma la speranza, vi ricordo, è l’ultima dea. E il nostro scirocco invernale, che soffia dal mare sino a raggiungere con un sospiro il profilo della Bella Dormiente, con le sue folate possenti e purificatrici, capaci di far piazza pulita delle nuvole più ostinate anche nelle giornate di grigio uniforme, resta pur sempre un formidabile e unico alleato.

Lucia Guida

La moglie del mercante (Boris Michajlovič Kustodiev, 1918)

Tempo di primavera e novità editoriali

“È un viaggio per viandanti pazienti, un libro.”

A. Baricco

 

Cari amici, direi che ci siamo. I tempi sono più che sufficientemente maturi per annunciarvi che a breve sarà pubblicato il mio sesto figlietto scrittorio per i tipi di Alcheringa, ce noeap laziale, un romanzo di narrativa ambientato in età contemporanea in luoghi a me cari.

Scegliere di affidarne la cura alle mani attente e competenti di Lina Anielli ha richiesto da parte mia un’opera di cernita certosina. Volevo una casa editrice che fosse rigorosamente no eap con cui lavorare in reale sinergia valorizzando la mia scrittura senza snaturarla. Penso di esserci riuscita.

Restate connessi perché di info a riguardo altrettanto belle e interessanti ce ne sono ancora molte.

Soprattutto siate felici per me come io lo sono. Felici per la possibilità di poterci incontrare a metà strada anche stavolta legati dallo stesso filo: quello che empaticamente unisce autore e lettore sull’onda di pensieri, emozioni e sensazioni condivisi da entrambi.  

 

Lucia

 

 

 

 
 

Una vita a piccoli punti

Ci sono molti modi di fissare nel tempo pensieri e parole. Di recente, complice la situazione emergenziale in cui siamo oramai da più di un anno immersi, io ne ho scelto uno antico, da crocheteuse, in cui riesco a coniugare in maniera ideale tantissime cose. La mia voglia di creare, che non manca mai, e quella di poter toccare in concreto il frutto della mia costruttività. Il poter pensare e riflettere sulle cose della vita e del mondo in silenzio, tenendo tuttavia ben presente l’oggi. Chiedete cosa può succedere a chi è impegnato in un progetto di ricamo, cucito, di lavorazione ai ferri o all’uncinetto se indulge in divagazioni mentali troppo ampie: vi risponderà subito che il rischio che capiti un intoppo nel lavoro è altissimo. E che in quel caso minuti, ma anche giornate intere, potrebbero sparire in pochi secondi: quelli occorrenti a sfilare, (con una buona dose di rimpianto, vi assicuro) il lavoro certosino di ore e ore impiegate con esercizio infinito di pazienza.
Già, la pazienza. Una virtù di cui la vita non mi ha dotata a piene mani ma che ho appreso col passare degli anni a esercitare con buona dose di resilienza imparando a non dispiacermi del molto tempo impiegato se quest’ultimo è funzionale alla realizzazione ottimale di un progetto: di vita, di scrittura, di lavoro. Una pazienza da crocheteuse che si cimenta quotidianamente in un’opera fatta di piccoli punti messi in fila, uno dopo l’altro. Lavorati con la speranza segreta di riuscire a elaborare una riga sola, un disegno più complesso, un manufatto che abbia senso indossare a pelle ad altezza di cuore. Stringendo a sé un’infinità di nanosecondi tutti uguali che hanno fruttato alla perfezione: realizzare in maniera tangibile un qualcosa di irripetibile, intriso di manualità, tanta, ma di altrettante riflessioni. Il giusto connubio tra teoria e pratica.

Ero io quella

Ho letto e riletto questo libro, fino a consumarlo, nell’età sfumata dell’adolescenza, in un’epoca in cui per me e tanti come me tutto e il contrario di tutto avevano la stessa valenza nel giro di pochi secondi e c’erano momenti in cui passavo dal pianto al riso con la facilità con cui scartavo una caramella o provavo a fare un tiro dalla sigaretta rubata dal pacchetto di mio padre.

Ricordo il giorno in cui in classe alle superiori me lo allungarono da un banco all’altro durante una lezione di matematica; non so dirvi se ero annoiata o se la voglia di leggere un libro della mia autrice preferita di allora aveva prevalso sul mio senso del dovere tralasciando di seguire la spiegazione del professore con la giusta attenzione. Il panico mi prese nell’istante in cui mi resi conto che il mio maldestro tentativo di celare in qualche modo il mio oggetto del desiderio non era passato inosservato. Fu questione di attimi e il prof fu accanto a me, disseppellendo la copia di “Ero io quella” da un paio di quaderni. Chiusi gli occhi aspettandomi il peggio che sorprendentemente non accadde. Il prof guardò incuriosito me e la mia compagna di classe che me lo aveva dato pochi minuti prima «Ma leggete Brunella Gasperini?»

E senza aspettare la nostra replica continuò «È un’autrice impegnativa, non è sempre scontato capirla»
Poi lo poggiò con delicatezza sul mio banco mentre io tiravo un sospiro di sollievo. Sentendomi gratificata dall’apprezzamento silenzioso per ciò che leggevo da un uomo notoriamente burbero che incredibilmente aveva deciso di non rimproverarmi.

Da qualche sera “Ero io quella” nella ristampa a cura di GAEditori e le pagine con le vicende dolceamare di Nicoletta e Raf mi aiutano a terminare le mie giornate. Con un briciolo di tenerezza in più: per quella che un tempo ero e per ciò che adesso, da ragazza ‘cresciuta’ sono.