Coups de chance

Anche per quest’anno il mio racconto Coups de chance farà parte in ottima compagnia della pubblicazione a cura della piattaforma Ready to Read per la sezione Hotel Stories. Con il placet del patron Mauro Gabba ve ne propongo la lettura integrale invitandovi a immergervi in tutti gli storytelling della pubblicazione per scoprire località e residenze di pregio di cui la nostra Italia è ricca.
A presto

COUPS DE CHANCE

Quel coup de chance capitò a Fiorenza all’improvviso e per vie del tutto inaspettate.

Non era mai stata fortunata al gioco e in vita sua aveva vinto un unico premio: una confezione di pistacchi tostati in occasione di una lotteria di Natale a cui aveva partecipato anche lei, organizzata dal Cral della ditta di suo marito. Un magro premio di consolazione tra settimane bianche, una mountain bike e un pacchetto benessere in una spa della zona. All’epoca Dario l’aveva bonariamente presa in giro e la serata si era conclusa tra risate e coccole in camera da letto. Possedevano entrambi il mondo nel palmo di un’unica mano e lo sapevano alla perfezione. Tutto il resto contava davvero poco.

Il mese passato aveva aderito in ufficio a quella riffa di beneficienza perché credeva nella causa patrocinata da Olga, sua collega e attiva collaboratrice di una Onlus che si occupava di persone anziane in difficoltà. Il biglietto di carta sottile rosa che riportava il suo cellulare e un numero in serie era, quindi, finito nel portafogli tra mille minuzie legate alla sua quotidianità spicciola. Quel venerdì mattina era letteralmente caduta dalle nuvole arrivando al lavoro e trovando i suoi colleghi schierati in sua attesa mentre Olga le porgeva una busta invitandola ad aprirla.
– Ciao, Fiore! Guarda un po’ cosa c’è, oggi, per te…

Lei aveva obbedito stupita e si era meravigliata non poco leggendo la consistenza della sua vincita: un weekend in una prestigiosa villa d’epoca, Villa La Meridiana, a Santa Maria di Leuca, in Salento.

Le era toccato offrire un caffè a tutti tra una congratulazione e l’altra dei suoi colleghi, divisi tra la partecipazione sentita al suo colpo di fortuna e una punta d’invidia benevola nei suoi confronti.
Quella piacevole novità l’aveva messa di buonumore, non vedeva l’ora di condividerla con suo marito.  Con un’idea sui generis che quell’insperata circostanza aveva contribuito a far nascere in lei: un disegno preciso che si era rafforzato a dismisura nell’attimo in cui aveva telefonato al titolare dell’agenzia di viaggi che aveva emesso il voucher.

Tornata a casa aveva preparato in poco tempo una cenetta semplice ma gustosa aspettando con una certa impazienza il rientro di Dario, dividendosi tra le incombenze di moglie e quelle di madre con la telefonata serale dedicata a sua figlia, studentessa in Erasmus a Marsiglia.

-Complimenti, mamma! Che cosa bella! Dai, dimmi la verità che non vedi l’ora di farti un bel viaggetto con papà- si era congratulata con lei la ragazza. E lei, suo malgrado, aveva dovuto ammettere a voce alta che sì, era proprio quello che aveva intenzione di fare.

Dario era arrivato con qualche minuto di ritardo rispetto al solito dandole un bacio leggero sulle labbra prima di abbandonare il suo zainetto di lavoro sulla poltroncina dell’ingresso.

-Che c’è per cena?-, le aveva chiesto. E, senza aspettare la sua risposta, si era fiondato come d’abitudine sotto la doccia ben deciso a scrollarsi di dosso la fatica di quella giornata lavorativa intensa.
Avevano iniziato a cenare in silenzio, accompagnati dal ronzio della Tv in sottofondo.
Portando in tavola una macedonia di fragole Fiore non ce l’aveva fatta più a tenere il segreto.
– Indovina un po’…

-Cosa, amore?- le aveva replicato distratto lui, alzando col telecomando il volume della televisione alla notizia di un episodio di cronaca che l’aveva particolarmente colpito.
Fiorenza non si era lasciata fuorviare dalla sua apparente indifferenza.

-Prepara il trolley, quest’anno il nostro anniversario lo trascorriamo in un posto speciale-, aveva aggiunto con tono deciso.
Dario aveva continuato a seguire il reportage giornalistico di quel programma d’assalto che tanto lo aveva preso fino alla fine; poi aveva spento la TV e il soggiorno era piombato in un silenzio che li aveva avvolti in una cappa di indefinitezza.
-Dicevi, Fiore?

Lei aveva respirato a fondo e gli aveva esposto il suo programma in maniera più esplicita.

-Dicevo che quest’anno possiamo evitarci la solita cenetta a due per il nostro anniversario. C’è una novità-. Ed era partita col suo racconto condito di entusiasmo e di sorpresa per quel weekend provvidenziale piovutole dal cielo, descrivendo con dovizia di particolari quel viaggetto all’insegna del benessere psicofisico fatto di paesaggi mozzafiato, natura incontaminata e dimore d’epoca dotate di ogni comfort.

Lui l’aveva ascoltata in silenzio, senza commentare. Poi le aveva replicato scegliendo con cura le parole da usare.

-L’idea è fantastica, di sicuro.

-Peccato davvero che per quel fine settimana di giugno che hai in mente io sia impegnato qui in zona in una convention con il nuovo responsabile dell’area marketing della ditta-, aveva concluso con appena un filo di esitazione.

Fiore lo aveva ascoltato delusa. La situazione che lui le aveva prospettato aveva avuto lo stesso effetto di una doccia gelata.   

-Una convention? Non me ne avevi parlato per niente…

-…contavo di farlo stasera, è una notizia che risale solo a qualche giorno fa-, aveva aggiunto lui lentamente, alzandosi e prendendo a sparecchiare.

Fiorenza ripensò a quell’isola felice che si era prefigurata in una manciata di ore. Lei e Dario non erano certamente una coppia di primo pelo, (di ciò lei era più che consapevole!) eppure insieme erano riusciti a doppiare dignitosamente parecchie boe nell’istante in cui alla passione e alla frenesia iniziale erano subentrati affetto, rispetto e stima reciproci. Fece per aprire bocca per chiedergli qualcosa ma lui continuò a parlare senza lasciarle via di scampo.

-Mi dispiace, Fiore. Stavolta è andata così. Festeggeremo quanto prima, promesso-.
Il senso di profondo sconforto non ebbe, tuttavia, il potere di distoglierla da quel piano che pian piano e suo malgrado aveva preso una consistenza ben definita. In ufficio si guardò bene dal rifiutare quel giorno extra di ferie messo a sua disposizione con generosità dalla sua compagna di stanza, Marina, per aiutarla a concretizzare quella che, sentimentalmente, le era apparsa come fuga romantica a due.
Fiore partì da sola, in treno, all’indomani dell’inizio della famosa convention di Dario.

Quel progetto nato per caso e cresciuto con caparbia si era fatto vittoriosamente strada. Non aveva affatto intenzione di rinunciarvi barattandolo con qualche ora trascorsa sulla spiaggia della città in cui abitava, né col costoso mazzo di rose che lui, ne era certa, le avrebbe fatto pervenire per sistemare le cose tra di loro.

Lecce l’accolse con la ricchezza austera delle sue chiese e dei suoi palazzi nobiliari in pietra calcarea. In attesa di prendere un pullman per raggiungere Santa Maria di Leuca si concesse il lusso di passeggiare all’ombra degli edifici antichi che ne abbellivano il centro storico e di pranzare velocemente scegliendo, tuttavia, con cura un locale nella suggestiva Corte dei Cicala, sorpresa sua malgrado dal suo spirito d’iniziativa.

Santa Maria di Leuca le fece dono al suo arrivo di un’atmosfera fané che non le dispiacque. Il borgo era incantevole come se lo ricordava quando da bambina trascorreva brevi periodi di villeggiatura ospite di amici di famiglia dei suoi; la costa rocciosa degradante verso il mare con morbidezza pareva rispondere perfettamente al suo stato d’animo attuale bisognoso di equilibrio e di conferme.
Una volta arrivata a destinazione apprezzò la riservatezza con cui l’addetto alla reception si fece bastare la spiegazione che probabilmente suo marito, con cui aveva inizialmente pianificato di pernottare in loco, non avrebbe fatto in tempo a raggiungerla.
Decisa a far fruttare al meglio il suo soggiorno si riposò in camera tra la frescura delle lenzuola di lino bordate di pizzi fatti a mano, dando uno sguardo distratto ai messaggi e alle chiamate che l’avevano raggiunta, a cui rispose con un laconico ‘Sto bene. A presto’ mentre i suoi occhi rincorrevano pensieri attraverso le sottili lame luminose che filtravano dalle persiane accostate con cura. 
Pochi minuti ed era già in cammino verso Punta Mèliso costeggiando senza fermarsi il porto turistico affollato di natanti di varia dimensione. La sua esigenza di essenzialità si incontrò perfettamente con la scabra bellezza della costa e lei avvertì l’urgenza di trovarsi di fronte al mare aperto spingendosi fino al santuario di Santa Maria de Finibus Terrae di Castrignano del Capo, in equilibrio perfetto tra oriente e occidente. Respirò aria di mare pura e rigenerante mentre guardava pensosa il faro, bianco e slanciato verso l’alto, alla sinistra della basilica. Non sapeva quanto di metaforico tutto ciò rappresentasse per lei ma godette di quell’istante fino a quando la luce del giorno glielo consentì.
Tornò in residenza in tempo per dedicarsi alla cena che aveva ordinato per sé con l’aiuto del concierge in un ristorantino a pochi passi dalla Villa.
Fiorenza si abbigliò con cura quella sera. Indossò un abitino di lino e seta smeraldo longuette semplicissimo impreziosito da gioielli etnici al collo e ai lobi lasciando sciolti sulle spalle i capelli castani che di solito portava raccolti in ufficio per questioni di praticità. Completavano la sua mise un paio di sandali bassi dalla fattura artigianale, eleganti e comodi. Aveva lasciato in albergo il cellulare e si era portata l’essenziale in una sacca di seta grezza rubata dall’armadio di sua figlia che l’aveva acquistata durante un viaggio in India come cooperante.

Al tavolo gustò una cena semplice e tipica scelta sul menu con minuzia, concentrandosi sulle prelibatezze locali a base di pescato. Il cibo era uno dei piaceri della vita, e allora perché non approfittarne degnamente? Di quella vacanza rubata a caro prezzo allo scorrere dei giorni lento e ripetitivo voleva godere fino all’ultima goccia. ‘Mustazzolo’ incluso, un inconsueto dolce a base di vin cotto in cui riconobbe l’aroma inconfondibile e particolare della cannella e la dolcezza discreta del miele, servito con una nuvola di crema alla vaniglia.
Il locale era popolato da un paio di comitive e da qualche coppia. Gli unici avventori in solitaria erano lei e un uomo di mezza età dall’aspetto giovanile, vestito in modo casual ma ricercato. Fiore distolse il suo sguardo da quello del suo compagno nell’attimo in cui si rese conto di aver suscitato il suo interesse.
Ma le circostanze decisero per lei nell’attimo in cui il cameriere le portò un bicchierino ricolmo di liquore ambrato.

-Un piccolo omaggio dal signore laggiù, una lacrima de ‘Le Ricordanze’, un vino passito locale. Ottimo accompagnamento per il suo ‘mustazzolo’. –
Fiorenza incontrò lo sguardo cordiale del suo compagno che alzò verso di lei un bicchierino ricolmo della stessa bevanda.
Sorrise per ringraziarlo e iniziò a sorseggiare il vino liquoroso, dolcissimo e dal tono robusto.
In circostanze diverse si sarebbe schermita e non avrebbe accettato per nessun motivo le profferte di un perfetto sconosciuto ma quella sera sentiva di poter osare qualcosa di diverso. Era uno dei privilegi della maturità, concluse, stabilendo di non indagare oltre sull’intraprende disinvoltura che l’aveva afferrata.
Pagò il conto e decise di regalarsi una breve passeggiata nell’aria tiepida e profumata della notte.

-Di passaggio a Santa Maria per il fine-settimana?

Scoprì che ad affiancarla con passo morbido e rapido era stato il bel tipo del ristorante. Lei lo guardò con una punta di ironia, per nulla spaventata. Era curiosa di sapere dove sarebbe andato a parare.

-Esattamente. Riparto a breve-, gli concesse stringata.
-Presumo viaggio di piacere.

-Proprio così – gli rispose ostentando la mano sinistra in cui riluceva il solitario che Dario le aveva regalato in occasione del loro primo anniversario, quello in cui lei con orgoglio massimo gli   aveva annunciato di essere incinta.

L’altro abbozzò un mezzo sorriso dando prova di aver mangiato la foglia ma non mollò la presa.
-Io sono qui appositamente. Quando vengo per lavoro a Lecce mi regalo sempre un soggiorno sulla costa ionica o adriatica. È il mio personale modo di volermi bene-, le disse con semplicità.
-Volersi bene nella vita è importante- gli concesse lei, suo malgrado colpita dal tono di quelle parole, continuando a passeggiare in quell’atmosfera serale così suggestiva, sospesa tra mare e terra.

Percorsero insieme la riviera costeggiata dalle sedici ville d’epoca che lo avevano reso così celebre schierate come debuttanti al loro primo ballo, parlando del più e del meno e scoprendo di possedere più di un’affinità. Fiorenza rise di gusto alle battute del suo nuovo amico. Finì che tirarono sino a tardi mentre i loro passi rimbombavano sul selciato oramai deserto.
-Io sono arrivata. Grazie per la serata- gli annunciò lei, fermandosi davanti al cancello in ferro battuto di Villa La Meridiana.
-Sei stupenda, lo sai?
Lui le sorrise e le si avvicinò.
Ama ci t’ama, e cci nu t’ama, lassalu”, “Ama chi ti vuol bene e lascia perdere chi non te ne vuole”. Chiudendo gli occhi e offrendosi a lui per essere baciata lei si chiese invano dove avesse mai sentito in passato quell’antico proverbio salentino.

Fiorenza si svegliò stiracchiandosi con voluttà.
Nonostante l’ottima cena e le emozioni della sera precedente aveva dormito a lungo.
Un’occhiata rapida all’orologio le confermò che se si affrettava avrebbe potuto fare colazione in hotel prima di iniziare il dettagliato programma stilato per quel particolare sabato di giugno. Aveva deciso di concedersi una mattinata pigra e di oziare nei paraggi, valutando la possibilità di affittare un’utilitaria per spingersi nel pomeriggio verso Gallipoli.
-Ciao, Fiore.
Avrebbe riconosciuto tra mille il timbro basso e suadente della voce di quell’uomo poggiato al muro di recinzione dell’antica Villa.

-Ciao, Dario. Hai…

-… disertato la convention e guidato come un matto dall’alba di stamattina? Sì, l’ho fatto. Dopo aver trascorso una delle notti più lunghe della mia vita annusando il tuo odore tra le lenzuola-.
Fiorenza lo guardò con un misto di fastidio e di tenerezza, ripensando ai bei momenti tra di loro e agli impasse che pure c’erano stati, alle tante fermate e alle ripartenze del loro sodalizio più che ventennale.
Lui le porse un papavero, strappato da una fessura di un muretto a poca distanza da lì.
-Buon anniversario-

Lei lo prese e se lo mise nell’asola del primo bottone del prendisole vintage. Poi gli accarezzò il mento con un accenno di barba e lo baciò sulle labbra, respirando il suo odore di uomo misto al dopobarba con cui lui si era asperso il viso. Un pensiero veloce andò a ciò che non si era compiuto solo poche ore prima nell’attimo in cui il suo sconosciuto ammiratore le aveva sfiorato il viso con un fiore di buganvillea chiedendole di passare la notte insieme e lei gli aveva risposto di no. Quanto tempo era trascorso? Una vita intera, si disse. 

-Buon anniversario a te, Dario. Bentornato.

Lucia Guida    

READY TO

Piccole cose di pessimo gusto

Tempo fa in una delle mie gironzolate in web sono arrivata a conoscenza della presenza del mio primo libro edito, una silloge di racconti intitolata “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile”, Nulla Die (2012), in formato pdf ma anche epub ed emobi previo registrazione su più di un sito straniero. Ovviamente nessuno mi ha chiesto il permesso di poterlo inserire né lo ha fatto con l’editore. Non saprei dirvi neanche se alla fine tutto questo possa essere ricondotto a un’operazione molto più elementare, finalizzata alla mera raccolta dei dati sensibili di coloro che, attratti dalla promessa di poter scaricare gratuitamente materiale di varia natura, accettano di loggarsi inserendo i propri dati.
Ho, però, pensato di proporvi qualcuna delle sei storie della raccolta ancora inedite quanto meno virtualmente. Mai, cioè, diffuse da me a mezzo digitale.
La mia prima proposta di lettura è una storia intitolata “Piccole cose di pessimo gusto”, scritta e arrivata in finale in un concorso letterario di un po’ di anni fa prima di essere data alle stampe. È la storia di Celeste, attempata proprietaria di un negozio di articoli usati e di modernariato che dalla prospettiva privilegiata delle sue vetrine guarda al suo personale microcosmo e ai personaggi che lo popolano con leggerezza, ironia e grande indulgenza. Accanto a lei Willy, compagno inseparabile delle sue giornate, e il fluire lento ed equilibrato della vita  “come acqua di fiume che va al mare”.


Piccole cose di pessimo gusto

Il mio tè al bergamotto corteggiata da Willy che mi gira intorno aspettando paziente di ricevere come di consueto il suo pasticcino è il primo piacere della giornata. Davanti alla porta finestra del tinello, lo sguardo attento al viavai discreto che anima di prima mattina questo corso di provincia, intervallato simmetricamente a destra in banca da platani secolari, ora ricoperti di fogliame e inflorescenze grazie a una primavera prodiga che non ha mancato al suo appuntamento. Seminascosta da un ramo più folto degli altri c’è la mia botteguccia di piccole cose di pessimo gusto. Attraverso le maglie larghe della serranda si lascia intravedere con ingenua sfrontatezza tra le saracinesche massicce dei negozi che la circondano, dotate di sofisticatissimi antifurto e di altrettanto imponenti chiusure interrate. Scegliere di proteggerne la vetrina con questa sorta di armatura non è stata decisione facile; la percezione di forzare quasi, con questa imposizione, gli infissi una volta laccati d’azzurro, ora sbiadito celestino, e la stessa insegna di legno dipinto che non ho mai aggiornato, una di quelle che una volta usava difficili ora da trovare in giro, mi ha perseguitata a lungo. Eppure ho dovuto arrendermi al progresso e alla necessità; la mia unica consolazione è che ben tirata in alto scompare quasi nell’intercapedine del muro e almeno fino all’ orario di chiusura serale posso fingere che questa bottega sia rimasta la stessa di 30 anni fa, quando volendo imprimere una svolta decisiva nella mia vita ho deciso di aprirla, rilevandola dagli eredi impazienti di un robivecchi passato serenamente a miglior vita. Quasi le sette e trenta. Rebecca, zainetto semivuoto in spalla, attraversa la strada diretta alla fermata dell’autobus. Senza motorino, come a volte capita. Sua madre deve essere fuori città altrimenti tra una reprimenda e l’altra non avrebbe mancato di darle un passaggio. Ed ecco sopraggiungere a ritmo serrato il ragionier Romoletti, volpino al seguito virgola di corvée già di primo mattino. Per poter scorgere anche la biondissima Ewa Ruslanova, terzo piano interno sei, e completare quindi l’appello dei miei beneamati coinquilini dovrò aspettare ancora un po’. Afferro le mie cose e mi appresto a scendere in negozio, cercando di fare mente locale ordinando per priorità le tante incombenze che mi aspettano. Willy mi precede con sveltezza, avendo di tanto in tanto il buon gusto di voltarsi per accertarsi che lo segua. Abito in questo palazzo dalla nascita, avvenuta un po’ di che decenni fa ma sfido chiunque a indovinare la mia età. Tutti mi conoscono come la signorina Celeste dell’interno due del secondo piano; una sorta di istituzione, amata e al contempo cordialmente detestata per la controversa abitudine che ha di farsi gli affari altrui. Accanto a me Rebecca e la sua famiglia. In realtà la loro è più che altro una triade che si scompone e ricompone a ondate, quando il capofamiglia, uomo in carriera giacca, cravatta e cellulare di ultima generazione alla mano, viene deposto davanti al portone dai pesanti battenti di bronzo da uno dei tanti taxi gialli cittadini. Il tempo di trattenersi qualche giorno inframmezzando la propria comparsa con performance sportive all’alba in tuta al vicino parco e inviti a cene di rappresentanza con sua moglie Agata. Fino alla prossima partenza da quello che probabilmente per lui è diventato una sorta di box ove ricevere assistenza e cure essenziali prima di riprendere a gareggiare in pista. Da tempo Rebecca, loro unica figlia, ha deciso di non seguirli più e può capitare che da brava diciassettenne esca per proprio conto, a volte trasgressivamente abbigliata in compagnia di amici automuniti o sul suo scooter, casco ben calzato ma non allacciato sui capelli ricci, lunghi e ramati. Evidente che sia la ricerca di un baricentro che le permetta di contrastare vittoriosamente una forza di gravità spietata e invasiva. A spasso col mio Willy qualche tempo fa l’ho vista rientrare ora tarda a bordo di una di quelle macchinette inconsistenti simili ad automobiline in circolo sulla pedana della giostra di un’antica fiera di paese. Ci ha messo un po’ a scendere in bilico su tacchi vertiginosi stretta in un tubino nero e luccicante. L’ho udita ridere sonoramente ma non con gli occhi. Un ragazzo, sceso con lei, l’ha abbracciata con troppa cordialità prima di essere respinto scherzosamente ma con decisione. Pochi secondi per sfuggire anche un bacio preteso a tutti i costi con l’ultimo barlume di disinvoltura residua e un saluto blando con la mano. Poi la necessità di appoggiarsi pesantemente al muro color ocra del palazzo per una manciata di minuti, quasi a cercare sostegno, prima di frugare nella borsina per le chiavi e sparire inghiottita dall’androne buio di casa. L’ultimo riflesso dei lampioni sferici dalla luce aranciata me l’ha mostrata pallidissima sotto il trucco forte e pronunciato. Il giorno dopo Agata, tailleur e tacchi a spillo, è riemersa al mattino in solitudine, parlottando concitatamente al cellulare prima di saltare in macchina e partire a razzo. Lavora in un importante ditta ed è addetta alla selezione del personale. Dicono che sia molto brava in questo. Le chiamano cacciatrici di teste e forse lo sono davvero. Lampante che per lei il lavoro sia ben più che una fetta dell’esistenza; Certo è che come madre non credo riscuota ultimamente lo stesso successo E altrettanto chiaro è che ciò le dia enormemente fastidio. Rebecca in t-shirt e slip l’ha osservata a lungo allontanarsi nel traffico dai vetri del soggiorno minimal chic. Poi, guardando in basso, si è accorta forse della mia insistenza nel pulire la vetrina del mio negozietto e si è ritirata, sparendo dietro la confortante penombra di pesanti tende oscuranti sino al pomeriggio. Appena in tempo per evitare con un’uscita davvero tempestiva il rientro di sua madre assieme un ulteriore sequela di presumibili noiosissime recriminazioni. La mia vera spina nel fianco è tuttavia Maria Rinaldi in Romoletti, icona del peggior matriarcato che possa oggi sopravvivere con assurdo paradosso in una società in cui è e spesso bieco maschilismo e non altro a prevalere nel contrastato mondo delle relazioni interpersonali. Chiedo venia se non riesco a nutrire nei suoi confronti la benché minima ombra di indulgenza. Sposata con un figlio che di rado visita il lucidissimo quartierino al terzo piano in cui si è da tempo immemore insediata, ben presidiato da un paio di kentia fiorenti al lato del portoncino e da un penetrante odore di cera che ti avviluppa con forza già nell’attimo in cui varchi il portone d’entrata al pianterreno. Sarà forse una spiccata allergia al succitato prodotto, o più verosimilmente una sola intolleranza verso una moglie così intransigente a far trascorrere a suo marito, in pensione ormai da un paio d’anni, buona parte del proprio dilatatissimo tempo altrove? Giustificato ampiamente da un succedersi trafelato di commissioni di vario tipo interrotte tuttavia da ritirate regolamentari coincidenti con l’orario dei pasti. Certo è che i paramenti della sala da pranzo sono in continuo movimento, come agitati da un venticello dispettoso, nel sorvegliare di continuo entrate e uscite dei condomini da mane a sera. Manco a dirlo, io e Maria Romoletti da tempo navighiamo su imbarcazioni separate in un mare di costante bonaccia, impegnate a mantenere una sorta di tregua perenne in cui non vi è più posto come in passato per rivendicazioni veementi e scaramucce quotidiane. Lei sembra aver accettato il mio stato consolidato di singletudine; credo perfino abbia archiviato il ricordo di alcune mie discutibili e disdicevoli frequentazioni maschili pregresse. Tornare a essere donna onesta mi ha riabilitata al suo poco lungimirante sguardo placando la sua sete di gossip a buon mercato. Grazie anche a Ewa. Ewa che riceve nel suo appartamento distintissimo uomini in giorni feriali e festivi dedicati al relax pomeridiano, alla messa domenicale, allo spettacolo di varietà televisivo del sabato sera. Ewa biondissima e dalla silhouette invidiabile che nulla ha a che vedere con la sua pettoruta e panciuta dirimpettaia infagottata in abiti strizzatissimi che sfortunatamente lasciano pochissimo all’immaginazione mostrando più del dovuto i segni e lo sfacelo del tempo trascorso. Il fatto è che Maria si è messa in testa di competere con la giovane escort nell’istante in cui ha percepito (sia pure tardivamente!) un bagliore luccicante sospetto negli occhi nerissimi e mobili del suo consorte al passaggio della “signora delle camelie”, espressione quanto mai indicativa del climax di disdegno e pruderie da lei in merito raggiunti. Non so se Ewa sia al corrente di tanta palese disapprovazione. So soltanto che i suoi sorrisi sono tutti per Amedeo Romoletti e che quest’ultimo farebbe carte false anche solo per invitarla a prendere un caffè alla Premiata Pasticceria dell’angolo, se soltanto l’attività continua di pressing della sua ingombrante metà gli concedesse un po’ di sosta.
Ho conosciuto Ewa in un sonnolento pomeriggio estivo in cui la calura aveva suggerito a molti miei colleghi di non aprire bottega. Io ero la presa con abat-jour anni 50 che proprio non ne voleva sapere di sposarsi con un nuovo paralume di stoffa, tra i guaiti del povero Willy, infastidito dai miei sbuffi continui, e l’ansimare sofferente di un vecchio ventilatore che non mi decido mai a buttar via impegnato con decorosa fatica ad assicurarci un po’ di frescura e a sollevare anche un bel po’ di pulviscolo tutt’intorno. Lei ci aveva osservati a lungo dall’esterno oltre a rimirare le tante mercanzie disposte in artistico disordine sulle mensole di legno in vetrina; poi, presa da una sorta di impulso irrefrenabile aveva sospinto con decisione la porta d’entrata facendone tintinnare sgomento il campanello. Al mio benevolo assenso a vagabondare tra cumuli di anticaglie e oggetti di modernariato, la sua attenzione si era alla fine focalizzata su una tazzina da cioccolata disseminata di delicatissimi roselline dal tenue colore racchiusa in una teca con cui generalmente proteggo i miei tesori più preziosi. Il suo viso, quel giorno insolitamente prima del trucco sapiente a cui ci aveva abituati, si era di colpo rasserenato. Per un bel po’ avevamo conversato di samovar e tè preparati all’orientale e all’occidentale; della sua vita di bambina solitaria trascorsa in un casermone alla periferia di Kiev, di sua madre abbruttita dalle lunghe ore di lavoro in fabbrica e di un padre che non riusciva a liberarsi della curiosa abitudine di bersi tutta la paga settimanale in vodka il venerdì sera. Aveva rimarcato coraggiosamente ma con una forma di pudore latente quest’ultimo particolare della sua vita passata, per poi riprendere  vigore e consistenza nel dichiararmi con orgoglio di essere in possesso di una laurea in materie umanistico-letterarie con cui era arrivata in Italia prima di considerare di far fortuna in modo più veloce come accompagnatrice di lusso (in realtà si era definita disinvoltamente hostess e io e Willy, incantati da quel flusso interminabile di frasi, avevamo bonariamente avallato questa versione). Di punto in bianco a metà di un’altra complicatissima narrazione dei tempi andati mi aveva chiesto a bruciapelo il prezzo della porcellana. Pretendendo di non volere resto dalla banconota di grosso taglio poggiata con noncuranza sul vecchio registratore di cassa. Alla fine eravamo arrivate a un compromesso: la tazzina fiorata con piattino e un minuscolo sole di ottone beneaugurante che proprio quella mattina avevo terminato di lucidare a specchio con molto olio di gomito. Sarà stato un caso forse no, ma il lunedì successivo uno dei tre avvocati dello studio legale associato al primo piano, quello di fronte la compagnia assicurativa, aveva sospinto la porta del mio negozietto con garbo, chiedendomi di procurargli, se non mi era di troppo disturbo, un grammofono de “La voce del padrone”, naturalmente se non ne avessi già uno lì disponibile. Rispondendo negativamente alla sua seconda richiesta, gli avevo tuttavia assicurato che ne avrei fatto lo scopo primario del mio successivo giro domenicale per fiere di paesi e vecchi negozi di rigattiere. Poi gli avevo regalato a mo’ di anticipazione un disco in vinile inciso solo da un lato di un famoso tenore italiano. Una ghiottoneria da gourmet. Lui ne aveva a lungo accarezzato la copertina sbrindellata e ingiallita dal tempo e con un sorriso che gli aveva disteso il giovane viso abbronzato incorniciato da capelli neri precocemente brizzolati era andato via con passo più lieve ripromettendosi di ripassare a breve. Durante le nostre interminabili conversazioni telefoniche notturne, tipiche di tutte le persone che a un certo punto della loro vita cedono al vezzo di stentare ad addormentarsi, Norina mi ripete spesso che forse dovrei andare anch’io a vivere in campagna. Norina è mia sorella. Dopo essere rimasta vedova ha scoperto di avere una profonda vocazione per la preparazione di manicaretti gustosissimi, confetture marmellate di frutta, torte, pasticci in crosta e pane ammassato lievitato naturalmente. Ottenuto il placet di sua nuora si è stabilita nell’agriturismo aperto da suo figlio, prendendo a curare erbette e polli con una dimestichezza davvero insospettabile per una signora sino a poco tempo prima dedita unicamente alla coltura di gerani e calendule da balcone e alla cura di inoffensivi canarini in gabbia. A volte confesso di pensarci seriamente. Ci ho riflettuto a lungo mesi addietro dopo aver ricevuto a orario di chiusura una strana e inquietante visita; due personaggi singolari, a cui le mie cose di poco gran conto non avrei mai creduto potessero interessare, sono entrati nonostante avessi diligentemente posto il cartello in cui annunciavo che per quella giornata le vendite erano terminate. Hanno preso a gironzolare svogliatamente nel poco spazio libero non occupato dalle tante merci affastellate, alcune da me riportati al loro splendore originario altre semplicemente in attesa che me ne prendessi cura. Il più alto ha lasciato che fosse il suo amico a terminare quell’esame sommario, restando con le braccia conserte a scrutare i pochi passanti di quella brumosa serata di gennaio. Quest’ultimo, capelli abbondantemente cosparsa di brillantina o qualcosa di simile, a un certo punto mi ha sorriso in modo strano e, accendendo un cerino, l’ha lasciato cadere sul pavimento ai miei piedi, provocando l’abbaiare furioso del mio Willy che non avrebbe mancato di avventarsi indignato se soltanto io glielo avessi permesso invece di tenerlo stretto tra le mie braccia, batticuore contro batticuore. Alla fine con una smorfia mi ha salutata annunciandomi che loro sarebbero certamente ripassati prima di dileguarsi in strada. Fortunatamente l’episodio non ha avuto strascichi di sorta. Probabilmente la mia merce non ha risvegliato abbastanza la loro cupidigia o forse qualcosa li ha, almeno per il momento, spinti a cambiare idea.So come possono andare a finire certe cose. Il negozio di ferramenta di Remo, le pareti annerite dal fumo e  dalle fiamme a meno di un isolato più in là, è stato per tutti gli abitanti del quartiere un segnale forte e chiaro. Come dimenticare lo sguardo di sua moglie Elena, umido e sofferente, nell’atto di appendere un cartello di fittasi sull’unica vetrina rimasta integra dopo il fattaccio? È stato un vero miracolo che nessuno ci abbia rimesso più del dovuto E che soprattutto Remo si sia doverosamente ricordato di rinnovare la polizza antincendio scaduta soltanto alcuni giorni prima, lui così incline a procrastinare per atavica pigrizia e scarsa memoria incombenze di tal fatta. L’unica percezione chiara riguardo alla mia vita è ,tuttavia, almeno per ora, quella di continuare a vivere in questo quartiere una volta così brulicante di vita e di umanità fino a quando sarà ancora possibile farlo. Non mi sento talea come Norina; io al mio vasetto di coccio minuscolo, forse obsoleto e un po’ vetusto ci tengo ancora e non ho voglia di abbandonarlo per provare ad attecchire in terreni nuovi magari più fertili ma così lontani da questo microcosmo tagliato su misura addosso a me come una seconda pelle. So che l’acqua di fiume va al mare e che non è in potere di nessuno arrestarla o talvolta semplicemente deviarne il corso. Tuttavia può capitare di imbattersi in pezzi di legno o rami levigati dall’impeto della corrente o addirittura scavati e scolpiti mirabilmente. Veri e propri tesori della natura disseminati con apparente noncuranza dal destino sul nostro percorso perché ciascuno di noi possa, volendo, apprezzarli portandoli via con sé. Per rimirarli in compagnia di altri o semplicemente per accarezzarli con gli occhi alla fine di quelle giornate che molto hanno delle guerre di trincea combattute zolla dopo zolla con lo sguardo fisso all’orizzonte. Giorni addietro mi sono procurata un fantastico fonografo a valigetta per l’avvocato dal viso stanco. Ho anche pensato di regalarli l’altra tazzina da cioccolata compagna di quella decorata a minuscole rose azzurre che conservo nel retrobottega con cura. E farò in modo che Ewa sappia che c’è un’altra persona al mondo altrettanto degna di aspirare come lei a cose uniche e grandi. Forse è con lo stesso scopo recondito che ho nascosto un piccolo cristallo di rocca nel pacchetto dell’agendina in pelle acquistata da Rebecca per il compleanno di sua madre. Le terrà compagnia discreta allontanando da lei pensieri negativi e ombre minacciose, riportandola con levità ai primi soli di questa bella stagione, ancora una volta di ritorno, pur se con qualche incertezza, per rallegrarci con semplicità. Confesso di non aver studiato abbastanza il caso del povero Romoletti; credo che il suo sia un affare ben più complicato di quanto di primo acchito non appaia. Sarebbe bello chiudere sua moglie con la sua aria boriosa di ostentata sicurezza in una gigantesca bolla di sapone e, soffiando con dolcezza, spingerla lontano sino al punto di non ritorno chiedendo al vento di portarla via con sé definitivamente. Credo purtroppo che ciò non sia al momento possibile. Ma la speranza, vi ricordo, è l’ultima dea. E il nostro scirocco invernale, che soffia dal mare sino a raggiungere con un sospiro il profilo della Bella Dormiente, con le sue folate possenti e purificatrici, capaci di far piazza pulita delle nuvole più ostinate anche nelle giornate di grigio uniforme, resta pur sempre un formidabile e unico alleato.

Lucia Guida

La moglie del mercante (Boris Michajlovič Kustodiev, 1918)

Fotografie

Cari amici, 

per voi oggi un mio racconto breve pubblicato il 10 ottobre 2020 nella rubrica letteraria “Il sabato del racconto” di Parma Repubblica.
Poche righe che parlano di memoria e di affetti e di storie familiari inalienabili nel tempo che hanno ancora molto da raccontare.
Un ringraziamento speciale a Tito Pioli, curatore della rubrica, e a Lucia de Ioanna che mi hanno scelta e ospitata sulla loro pagina
A voi buona lettura

 

FOTOGRAFIE

Erano quattro scatole di cartone di misura e dimensione diversa. In origine avevano ospitato biglietti da visita, cioccolatini, calze da donna velate, una vestaglia da camera maschile di cui si era persa traccia. Ora contenevano semplicemente fotografie scattate nell’arco di più di un secolo.

Luana le impilò l’una sull’altra, poi si sedette sul letto matrimoniale della camera dei suoi genitori e iniziò a perlustrarne il contenuto.

Non erano state conservate secondo un criterio oggettivo di classificazione perché nella stessa scatola era possibile trovare immagini di diversa cronologia: risalivano ai primi del 900 quelle dei suoi bisnonni piccole, scure e austere, accanto a quelle di sua madre ritratta da ragazza in montagna o al mare, delle scolaresche rette con doverosa autorevolezza dai suoi nonni, entrambi insegnanti, e di loro tre, Luana, Marta e Vincenzo, da neonati ad adolescenti attraverso compleanni, celebrazioni di varia natura e gite scolastiche.

Qualcuna di quelle foto aveva mantenuto intatto il suo splendore iniziale e se non fosse stato per la patina giallognola che ne adombrava il retro si sarebbe potuto pensare che fossero state fatte in tempi certamente non recenti ma nemmeno troppo remoti.

Erano gli angoli fratti, rugosi e solcati da sottili venature biancastre a denunciarne la provenienza antica e le frasi a commento vergate con una grafia svolazzante dalla bellezza obsoleta ma persistente: pensieri d’amore, commenti estemporanei sui personaggi che li avevano suscitati, semplici date trascritte in modo criptico destinate a nomi di sconosciuti che a lei non dicevano nulla.

Un flusso potente di sguardi adulti e bambini, di paesaggi vacanzieri o cittadini, di interni casalinghi o di studi fotografici rappresentati attraverso fondali sontuosi, fatti di giardini lussureggianti uguali per tutti in cui l’unico segno distintivo era quello di ospitare l’immagine di una zia che non c’era più con la sua feluca goliardica in testa e il volto sognante rivolto verso un invisibile interlocutore o l’atteggiamento attento di suo nonno bambino vestito alla marinara il visetto pensoso immortalato dal fotografo per regalare a figli, nipoti e pronipoti l’idea di un giorno speciale trascorso con l’abito buono costato denaro e sacrificio a una madre che l’aveva cucito da sé o commissionato a un’altra donna madre anch’essa.

C’erano persino foto divise a metà da una sforbiciata netta a separare affetti importanti che a un certo punto avevano cessato di esserlo testimoniati da avambracci intrecciati l’uno all’altro e moine di sconosciuti uniti da sguardi reciproci e risate fragorose di cui nessuno avrebbe saputo raccontare più niente.

Luana esaminò con pazienza tutti quei pezzi di cuore altrui conservati con cura certosina perché potessero sopravvivere indenni a traslochi, abbandoni precipitosi di case, lutti e separazioni, trasferimenti da un cassetto all’altro per arrivare sino a lei e poter essere accarezzati ancora con un tocco gentile, rispettoso.

La paziente raccoglitrice di tutti quei frammenti di vita non aveva reputato di ingabbiarli in album fotografici regolamentari stabilendo di mostrarli senza filtro a chi avesse deciso di interessarsi a quei pezzi inediti di storia familiare, immortalati con generosità in fotogrammi eloquenti ma talvolta ripetitivi.

Le piacque pensare che il fotografo avesse comunque deciso di regalare quegli scatti extra al suo committente a corredo di fotografie più rappresentative che, invece, erano finite in cornici d’argento o nel portafoglio di persone care come pegno d’amore o d’amicizia per poi perdersi per strada. In quei contenitori di cartone mal assortiti, scelti per la loro capienza più che per una questione di pregio, c’era un mondo di situazioni che mancava alle narrazioni ascoltate da chi l’aveva preceduta.

Luana le prese in blocco e le infilò in una sacca in cui aveva già messo da parte uno scialle di seta della bisnonna e una borsina ricamata da teatro di una prozia materna accogliendo virtualmente dentro di sé i volti di tutti i suoi antenati di cui aveva memoria e anche di quelli che non era riuscita a individuare pur conoscendone per filo e per segno le vicissitudini. Di quei bebè sorridenti che non erano arrivati a un anno di vita e di chi, invece, aveva concluso in tarda età la propria esistenza.

Soltanto in quell’istante avvertì la compiutezza di quel gesto necessario e gentile.

Con calma spianò le grinze sul copriletto di piquet bianco del letto dei suoi, poi si alzò in piedi e, sacca in spalla, raggiunse i traslocatori in soggiorno per annunciare che in quella casa il suo lavoro era terminato.

Lucia Guida 

 

Il racconto in edizione originale lo trovate qui

 

 

 

 

                                                        Ph.credit: Artribunedotcom

 

Curpa ro cauru

Ogni tanto torno alla mia antica passione di andar per premi letterari, cercando di aderire solo a quelli di qualità.
Il racconto che posto ora è un piccolo divertissement letterario incentrato sulla vicenda tragicomica di Linuzza  e sull’imprevedibile scambio e uso di pozioni di varia natura, arrivato in finale nell’estate 2020 nel Concorso Letterario Nazionale “Socc’mel che sfiga” bandito dalle Edizioni del Loggione di Modena.
“Curpa ro cauro” è parte dell’antologia di A.A.V.V. dedicata all’evento.
Buona lettura

 

Curpa ro cauru

D’afa e d’amore si poteva anche morire. Se lo disse Linuzza davanti alla finestra della camera da letto, le persiane accostate, mentre pensava con languore a Tonio che quel giorno non si era fatto vedere, le tende di trina leggera sollevate dal suo ansimare colmo di rimpianto.

E dire che a preparare quel pranzo succulento ci aveva messo tutta sé stessa dal momento che per lui l’adagio “l’amore passa per la gola” rispecchiava fedelmente la realtà. Certa che in un bacio e in un amplesso sensuale, profondo, Tonio avrebbe impiegato lo stesso ardore che impiegava nel gustare una fetta di arrosto o una generosa porzione di lasagna. L’ora di pranzo era ormai trascorsa e di lui non c’era traccia. Si aggiustò con calma la cinta della vestaglietta di raso staccandosi con riluttanza dal davanzale alla percezione di un ciabattare inconfondibile oltre la porta chiusa.

Zzia Malù, ancora sveglia siete? Su, andate a riposare un po’.

La vecchina la guardò sorniona, poi le sorrise con candore allusivo. Lina sbuffò rassegnata.

-Ancora? Ma se stamattina ve ne ho già data una …

L’altra si strinse nelle spalle dondolandosi vezzosa come una monella.

– E va bene. Ma che sia l’ultima, intesi? E poi a nanna, di filato – sospirò lei, porgendole rassegnata una geleè alla frutta. L’anziana la carpì con avidità mettendosela fulminea in bocca, passandosela da guancia a guancia per centellinarla pian piano. Poi accettò docilmente di essere messa a letto, le lenzuola di lino ben tirate e le imposte socchiuse per trattenere fuori quell’estate torrida. Chiudendosi la porta alle spalle Lina sospirò piano. Zia Malù era parte dell’eredità della buonanima di suo marito Rocco assieme a quella casa padronale, un antico negozio di tessuti e una montagna di debiti. E dire che tutti l’avevano guardata con invidia palpabile all’uscita del Duomo in abito bianco, giovanissima, al braccio di quell’attempato e piacente scapolone che in soli tre mesi aveva finalmente deciso di maritarsi. Un vero peccato che quel matrimonio fosse stato di breve durata e che lo sposo avesse d’improvviso deciso di passare a miglior vita alla fine di una serata dedicata al vino novello e ai festeggiamenti in onore di San Martino con amici di vecchia data. Una vera fortuna che Tonio, compagno d’infanzia di Rocco, ci avesse messo tutto sé stesso a consolarla tanto da scatenare le ire funeste dell’anziana madre presso cui viveva, assai prevenuta verso quella vedovella intraprendente che pareva non perder tempo. Sbocconcellando un pezzo di crostata fragrante lavorata con amore per colui che aveva disertato il loro rendez-vous e ancora calda di forno, Lina aggrottò le sopracciglia al pensiero che altre donne potessero ambire all’amato bene. Quella maestrina settentrionale ad esempio, bionda, snella e certamente più giovane di lei, che faceva voltare più di un uomo con i suoi colori nordici a quelle latitudini difficili da incontrare. Convinta che stesse mirando con un certo interesse al suo Tonio aveva deciso di correre ai ripari, recandosi svelta da Assunta, la magàra del paese, dispensatrice di filtri magici, erbe curative e sortilegi contro la malaventura.

-Mi devi preparare un filtro d’amore potente, potentissimo – aveva esordito, ben decisa a liberarsi di chiunque fosse di ostacolo al suo bel sogno con ogni mezzo, lecito e non. L’altra l’aveva guardata, poi aveva fissato ispirata la foto di Tonio, mormorando a occhi chiusi litanie propiziatorie dal tono lugubre di cui lei aveva voluto saper poco. Magia nera o bianca poco importava, quella faccenda andava risolta.

-Mi raccomando la costanza- le aveva detto Assunta perentoria, porgendole un intrico di fili di cotone annodati che andavano immersi in acqua benedetta e poi cuciti in un panno rosso da conservare nell’imbottitura del cuscino. E lei aveva seguito alla lettera la sua prescrizione, intingendo, quella stessa sera, la manina sottile nell’acquasantiera. Poi aveva versato un bel po’ di pozione nella brocca del vino in occasione del successivo pranzetto ben attenta che lui se ne servisse a volontà, facendo dapprima onore ai manicaretti e alle libagioni e poi faville in camera da letto; lasciandola sazia d’amore tra le lenzuola intrise di sudore e dell’odore dei loro corpi avvinti in un interminabile amplesso. Passata una settimana la storia si era ripetuta. Complice, quella volta, una cenetta al lume di candela consumata in sala da pranzo e culminata con un dessert speciale, una notte di passione senza precedenti, unica. Baciandolo all’alba con trasporto prima di salutarlo Lina aveva benedetto quell’elisir portentoso che così accortamente proteggeva e dava consistenza al suo legame con Tonio, restando per tutto il giorno in uno stato di beatitudine pura sino a quando Manuela, la ragazza che l’aiutava nelle faccende, non le aveva narrato con tono malizioso dell’incontro a mezzogiorno tra il suo spasimante e la maestrina al Caffè Centrale in piazza. Lina si era sentita morire vedendo crollare d’un tratto tutte le sue più rosee aspettative. E dire che la sera prima aveva versato una dose generosa di filtro nel caffè e nel bicchierino di ratafìa servitigli a fine pasto. Si era crogiolata nella malinconia di quel pensiero sino a quando non era dovuta correre in strada per riacciuffare la zzia, sfuggita al suo controllo e a quello di Manuela; l’avevano ritrovata imbellettata di tutto punto, cappellino con veletta in testa, in estatica contemplazione della vetrina del macellaio. Un po’ con le buone e un po’ con le cattive erano riuscite a ricondurre a casa la fuggitiva seppur con notevole ritrosia e brontolii, punendola con una cena a base di verdure e frutta cotta senza il conforto finale delle sue amate geleè; del resto il medico condotto aveva raccomandato di tenerla a regime per evitare spiacevoli complicanze prescrivendole un blando lassativo che la potesse all’uopo aiutare. Tenerla d’occhio le costava una buona dose di energie; bastava che lei voltasse lo sguardo ed ecco che l’anziana sembrava volatilizzarsi, abbondantemente cosparsa di cipria e profumo e un accenno di eleganza dato da un colletto di merletto ingiallito o vecchie collane dalle perle sgranate e opacizzate, in indolente passeggio per il corso principale del paese accompagnata dall’ironia dei compaesani che incrociava.

Uno scampanellio discreto riaccese la sua speranza. Con circospezione aprì nella calura estiva e soffocante il pesante portoncino di legno intagliato quel tanto che bastava per far entrare il suo uomo. Quel pomeriggio il pranzo fu messo da parte per passare senza troppi preamboli ad altro, l’atmosfera bollente esterna solo di poco superata dalla calorosità di quella della camera da letto padronale.

Con intima soddisfazione Lina poggiò il vassoio con le tazzine fumanti sul comodino, porgendo a Tonio il suo caffè e apprestandosi anch’ella a berlo in sua compagnia.

L’uomo la prese con prepotenza per un fianco tirandosela contro.

-Allora, Linuzza, che ne dici di conoscere mammà questa domenica pomeriggio?

Lei si strozzò quasi alla disinvoltura di quell’annuncio che oramai disperava di sentire in concreto oltre che nella seraficità dei suoi sogni più audaci.

-Vita mia, dici davvero?

Tonio aspirò una boccata della sua sigaretta e annuì solennemente.

-E quando mai, bocconcino, ti ho raccontato una faccenda per un’altra? Cosa fatta è.

La vedovella l’abbracciò con foga quasi a soffocarlo rischiando di bruciarsi seriamente con la brace del mozzicone acceso che gli penzolava ancora tra le labbra, coprendogli grata di baci radi il viso, il collo e finanche i baffi. Con quel caffè aveva voluto tentare il tutto e per tutto, versandovi dentro ciò che rimaneva dell’intruglio misterioso di Assunta. Ma il suo trionfo durò davvero poco; dopo qualche attimo Tonio era davanti a lei, piegato in due, a contorcersi per i forti dolori addominali che avvertiva, annunciandole a gran voce di aver necessità di andare in bagno, madido di sudore e pallidissimo in volto.

Incurante del parapiglia di sottofondo la nonnina, vestita di seta malva e ben profumata, sgattaiolò al pianterreno, precipitandosi rapida in strada per sedersi con sguardo adorante su un gradino di fronte all’entrata del negozio di Turi il macellaio in attesa che questi riaprisse i battenti per la vendita serale. Con voluttà si concesse l’ennesima geleè, conservando l’ultima che le restava per l’uomo che popolava da tempo le sue visioni oniriche femminili notturne e diurne.

Manuela sospirò piano pensando agli avvenimenti di quella giornata dall’epilogo imprevedibile e funesto: l’arrivo del dottore, accorso in fretta per visitare don Tonio colpito da una diarrea senza precedenti e la sua padrona in preda a una crisi di nervi che brandiva due boccette scure identiche completamente vuote, farneticando di purghe e di elisir. Zzia Malù avvinghiata a Turi u carnezziere su tutte le furie per essersela ritrovata ancora una volta in negozio a spasimare d’amore per lui. E poi, infine, Donna Carmela che prelevava suo figlio più morto che vivo con aria sdegnata e sprezzante, gridando a gran voce vendetta. Nuddu ci capiu chiù nenti, a schifiu finiu. Curpa ro cauru, sicuru.

La calura eccessiva, era risaputo, talvolta giocava bruttissimi scherzi.*

“Curpa ro cauru” in A.A.V.V., “Socc’mel che sfiga”, Modena, Edizioni del Loggione, 2020

Lucia Guida

 

 

Mariano Fortuny y Mandrazo, “Nudo di donna”, particolare, 1944

Le scritture ‘a progetto’: Racconti d’Autore

Quale cosa migliore celebrare il 23 aprile la Giornata Mondale del Libro con la pubblicazione di un ebook di racconti, i ‘Racconti d’Autore’, ambientati e dedicati ad alcune strutture alberghiere italiane aderenti al circuito dei Golden Book Hotels? A disposizione degli ospiti per un intero anno?

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Dalla ‘mission’ del portale ‘Ready to Read’:

‘Ready to Read’ – applicato ai progetti Hotel Stories e Wine Stories – è un nuovo e originale sistema di offerta di lettura d’Autore breve e dinamica, messo a disposizione degli ospiti e clienti di Alberghi e Aziende vitivinicole aderenti ai due progetti.

Essi troveranno – nelle camere o nelle confezioni di vini, nelle hall o nelle sale degustazioni – un elegante cartoncino contenente l’incipit in italiano e inglese (ma all’occorrenza in qualsiasi lingua) di un breve racconto d’Autore, realizzato ‘su misura’ nella forma e nei contenuti per la struttura ospitante.

La conclusione della lettura sarà reindirizzata su dispositivo mobile (smartphone, tablet, notebook) a mezzo del QR Code o del link esteso da copiare evidenziati sul cartoncino stesso.

La lettura sarà interattiva e consentirà di accedere facilmente a ogni contenuto accessorio utile per conoscere in profondità la realtà dell’azienda, la sua storia e la sua identità, i suoi servizi e i suoi prodotti.

(…)

Quest’anno tra gli autori selezionati ci sono anch’io; rappresenterò una dimora d’epoca, ‘Villa La Meridiana’, sita in Santa Maria di Leuca (LE), suggestivo crocevia tra oriente e occidente.
Se ne avete piacere venite a leggere i  nostri contributi. Il mio parla di colpi di fortuna, quei coups de chance che permetteranno a Fiorenza, protagonista femminile della mia storia, di fare chiarezza nella propria vita e scegliere con la massima libertà al meglio.
Perché la Fortuna è qualcosa che ci costruiamo in base a felici intuizioni, certamente, ma anche grazie alla concretezza delle nostre azioni.

A presto

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Il pdf dell’ebook completo è qui

 

Azzurro

Cari amici, una giornata particolare come quella di oggi per farmi risentire e parlare di violenza di genere attraverso gli occhi bambini di Marina.
Buona lettura a tutti
A presto
Lucia

 

 

Azzurro

 

Marina continuò a guardare attraverso le fessure dell’avvolgibile di legno, contandone gli spazi luminosi senza arrivare a una fine certa, per poi ricominciare da capo. Quel pomeriggio il suo giochino solito le sembrava un esercizio troppo difficile da portare a compimento. Al di là della porta sottile, troppo sottile per le sue orecchie, sentiva la voce alterata di suo padre e quella concitata di sua madre. Stavano parlando ad alta voce. Parlavano spesso, ultimamente, ad altissima voce e a lei questo non piaceva. Provò a nascondere la testa sotto il cuscino, inutilmente. Quella strategia non funzionava affatto. Troppo alti i toni di quella conversazione per poter essere smorzati da pochi grammi di gommapiuma. Non le restava che fare una cosa, la solita.

Con sveltezza e abilità s’infilò dalla testa il vestitino a giromanica di cotone profilato di edelweiss e, stando attenta a non fare più rumore del dovuto, aprì la porta e si trovò nel corridoio, lungo e in penombra, che piegava in fondo a sinistra prima di condurla all’ingresso di casa. Con le ciabattine di stoffa sfiorò appena le mattonelle di pietra, trattenendo il fiato mentre arrivava in prossimità della cucina. La porta di quella stanza era accostata, abbastanza aderente allo stipite per permetterle di oltrepassarla inosservata. E fu quello che fece, non senza prima essere bombardata da brandelli di conversazione concitata, astiosa.

– Me ne vado, capito? Faccio la valigia e vado via, hai sentito? Mi hai rotto, mi avete rotto tutti …  – recitava la voce maschile, quella di suo padre, in preda ad un attacco d’ira incontenibile, irrazionale.

– Aspetta, non fare così … – era la risposta smorzata di una donna, sua madre, affannosamente intenta a smussare i toni di quella che era oramai diventata una contesa senza fine. Era così da giorni, da mesi. La stessa, identica storia; lui che minacciava di partire e lei che, dolente, cercava di calmarlo, di farlo ragionare, di trattenerlo con tutte le sue energie. E loro tre, Aldo, Marina e la piccola Betta nello stesso letto, stretti l’un l’altro a confortarsi a vicenda e a sperare che quel fiume in piena di parole amare, inconcepibili, tristissime finisse presto di tracimare e raggiungere, impregnandole di dispiacere, le loro anime di bambini smarriti.

Quel pomeriggio i suoi fratelli erano però stati graziati ed erano andati al mare con gli zii. Unica beneficiaria di tanta gratuita veemenza verbale era stata lei e soltanto lei. Che, adesso, sperando che la porta di casa non cigolasse troppo, era ben determinata a conquistarsi una piccola oasi di pace in cui potersi rifugiare almeno per un po’. Prima di tornare in quella lotta senza quartiere che stava purtroppo connotando la sua quotidianità.

Erano solo due rampe di scale, fatte due gradini alla volta. Pochi metri di cemento e marmo che diventavano il suo ponte verso la libertà.

Sapeva che erano svegli dopo la siesta che li impegnava in qualsiasi stagione dell’anno. E che l’aspettavano. Per lei la loro casa era sempre aperta. Si chiese se anche loro avessero avvertito tutto quell’ inutile e forsennato clamore. Di quei litigi in sua presenza non se n’era mai fatto cenno. Non un commento, non una parola di biasimo per un genero così irascibile, né una domanda per quello che succedeva ad appena un piano di distanza. Forse era meglio così. Era già troppo mortificante incontrare lo sguardo degli altri abitanti del palazzo. Compassionevole e terribilmente curioso. Di gente che sa ma che fa finta di niente a cui basterebbe ben poco per provare ad approfondire la questione, anche con una bimba di otto anni come lei. Marina non voleva affatto essere compatita. Voleva essere uguale a tutti i bambini del quartiere. Voleva essere amata e accettata. In un caldo e confortevole bozzolo d’ affetto come soltanto i suoi nonni materni avevano il potere di avvolgerla.

– Marina, entra cara

La nonna aveva capelli striati di grigio e occhi che un tempo erano stati verdazzurro ma che adesso avevano assunto la colorazione del mare al tramonto. Lei spesso la chiamava la sua fata Turchina, come quella di Pinocchio. Tutti dicevano che da giovane era stata una gran bellezza e lei ci credeva e pendeva dalle sue labbra quando l’altra le raccontava storie di tempi passati, rendendogliele vive e presenti con la sua mimica e la sua abilità a descriverle. Poi c’era il nonno, baffi e capelli bianchissimi e occhi brillanti color cioccolato dal portamento fiero. Anche questa volta era intento a centellinare a piccoli sorsi una tazzina di caffè con tantissimo zucchero, troppo per i gusti di Marina. Un assaggio per lei, però, c’era sempre; e lei, grata, lo accettava, evitando di porre l’accento su quel particolare insignificante, immensamente felice per la sacralità di quel rituale a cui era stata ammessa senza riserva che cercava di stemperare di serenità  il suo ordinario ultimamente così tormentato e burrascoso. Una routine che le dava pensiero e le toglieva il sonno e l’appetito, lei già così magrolina e sottile, conferendo ai suoi occhioni castani un’ombra di maturità precoce e intempestiva come una nevicata di aprile su germogli verdi e teneri appena spuntati.

Se avesse potuto si sarebbe trasferita lì, in pianta stabile da loro. Ma non si poteva. Suo padre non vedeva di buon occhio che lei trascorresse troppo tempo dai nonni. E lei stentava a capirne il perché, percependo soltanto l’ingiustizia di quella proibizione che riteneva insensata e immeritata.

Una volta aveva chiesto ai nonni di comprarle una scatola di pennarelli colorati. Ricordava di aver toccato il cielo con un dito. Per lei disegnare era una delle cose che preferiva e che la riconciliava con le tante incongruenze che la circondavano, una delle sue passioni segrete, quasi quanto leggere libri. Le erano venute le lacrime agli occhi quando suo padre glieli aveva tolti con la scusa che servivano soltanto a sporcare. I pastelli a matita che lei possedeva andavano benissimo per lo scopo. A nulla era valsa anche la mediazione della mamma che, ripetutamente ma inutilmente, aveva cercato di farlo ritornare sui suoi passi. Lei si era tappata le orecchie ed era corsa in cameretta disperata e quella sera la solita manfrina aveva fatto da sottofondo anche alla cena. Poi, di nascosto, aveva scritto un biglietto che, sempre furtivamente, aveva imbucato nella cassetta delle lettere dei nonni in cui si scusava: non sapeva se il giorno successivo sarebbe potuta andare da loro come al solito oppure no.

Gli occhi del nonno, nel mostrarglielo un paio di giorni dopo, erano stati fermi ma forse un po’ più lucidi del solito. Lui le aveva detto che quel biglietto li aveva dispiaciuti e tanto e Marina, se possibile, si era sentita ancora più piccola, stretta tra l’urgenza e il bisogno di dare e ricevere da loro quell’ affetto che per lei era aria  sole e pioggia e il senso del dovere che la legava all’altro uomo della sua vita, suo padre.

Quel pomeriggio, però, aveva deciso di fare a modo suo. Era pronta a subirne le conseguenze, di qualsiasi portata esse fossero. Aveva troppa necessità di una boccata d’ ossigeno leggera e fresca.

Il suo palmizio preferito era una vecchia dondolo di paglia di vienna, foderata di un materassino un po’ acciaccato che attutiva poco la durezza dei lati e altrettanto poco serviva a colmare gli avvallamenti della zona centrale dovuti ad un uso frequente di adulti e piccini. Ma a lei non importava. Per lei quella vecchia sedia impersonava la compiutezza e la perfezione di un pezzetto di paradiso in cui poter sprofondare nel suo passatempo preferito, la lettura, attingendo a piene mani dalla libreria del nonno ricca di libri per ragazzi ordinatamente foderati di carta cerata, lucidissima, bianca a strisce blu, posizionati accanto ad altri volumi dall’aspetto serioso, imponente. Letture per grandi, da sbirciare con reverenzialità e da lontano. Tutto sommato per lei al momento di scarso interesse. Le pareva un pozzo senza fondo, quella libreria. Pieno di tesori inesplorati.

E poi c’erano i wafer alla vaniglia o i cioccolatini della nonna, con cui, sapeva, avrebbe potuto inframmezzare gioiosamente il suo svago, lasciando qualche piccola impronta marrone sulle pagine sfogliate con impazienza. Certa che nessuno l’avrebbe rimproverata per quello, né le avrebbe inferto punizioni tanto esemplari quanto incomprensibili.

Quel giorno, però, la nonna a sprezzo della calura incombente aveva pensato a qualcosa di più consistente. Nel tinello, sul tavolo quadrato lucido di legno antico ad attenderla

c’erano due fettine di pane imburrato e cosparso di zucchero. Una bontà e una gioia per gli occhi e per il palato. Marina sorrise, definitivamente rasserenata. La nonna era speciale, sempre. Fuori, nell’afa estiva che non accennava a placarsi, una radiolina trasmetteva una canzone che piaceva molto a sua madre e a lei. Masticando piano l’ultimo boccone della sua merenda Marina chiuse gli occhi per ascoltarla pian piano, prima di riprendere a leggere.
Cerco l’estate tutto l’anno

e all’improvviso eccola qua
E lei è partita per le spiagge

e sono solo quassù in citta
Sento fischiare sopra i tetti
un aeroplano che se ne va

Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro
e lungo per me

mi accorgo
di non avere più risorse
senza di te

E allora

io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te …

 

Una vacanza con i nonni, sarebbe stato bello, si disse, sorridendo.

Un condominio di periferia in città fatto di pochi appartamenti in cui era fin troppo facile sapere tutto di tutti. Un tinello raccolto e familiare,  luce e calore esterni attutiti da una tenda scura e pesante, penzoloni oltre l’ampio balcone. Le teste di due persone anziane chine sulle rispettive occupazioni, di cucito per lei e di contabilità per lui, l’uno di fronte all’altra. Tra di loro, una figura minuta di bimba con due treccine castane infilata in un abitino estivo abbottonato in fretta e guarnito da una gala di stelle alpine al fondo. Fuori, in lontananza, rumori di umanità impazzita.

Schermata, assorbita ed esorcizzata da gesti dettati da un cuore saggio e gentile per occhi simili a laghetti di montagna riflessi di cielo pulito. E labbra bambine desiderose di vita vera cosparsa di granelli di zucchero.

Ancora pochi attimi di beatitudine.

Prima del sopraggiungere rabbioso di un’ambulanza, di una corsa concitata su per le scale, di gente che finalmente aveva deciso di aprire la porta di casa per assistere, oramai impotente, a quell’ ultimo atto di ordinaria follia.

Di uno scampanellio estraneo a quella porta di anziani, quasi impacciato nella sua connotazione di notifica. Forse per la consapevolezza estrema di sapere di dover fermare il tempo, per sempre e inesorabilmente, per quelle tre anime e per altre ancora.

– C’è stata una disgrazia, sua figlia … al secondo piano …

Per alcuni quella vicenda sarebbe rimasta solo un titolo di prima pagina alimentato da qualche commento distratto al supermercato. Avrebbe fatto notizia per qualche giorno e poi sarebbe sfumata via per confondersi nella memoria collettiva di un pomeriggio d’estate assolato e troppo breve.

Marina avrebbe ricordato a vita quella canzone ripensando al retrogusto dolceamaro di quella strofa finale:

Ma il treno dei desideri
nei miei pensieri all’incontrario va

 

Non più cieli azzurri senza nuvole. Non l’avrebbe più cantata insieme alla mamma, quella canzone; la sua voce sottile di bimba, allegra, mescolata a una voce femminile adulta, stemperata di malinconia e rimpianto.
La sua piccola mano stretta con la forza della disperazione da un’amorevole mano di donna.

Lucia Guida

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shot by Anastasiya Chernyavskay

Storie di città – Tra cielo, mare e fiume

Tratteggiare in poche righe un angolo della città in cui riesci a riconoscerti può sembrare cosa apparentemente facile ma non lo è. Non sempre. Soprattutto se la città di cui vuoi descrivere una sfumatura non ti ha vista nascere ma si è comunque premurata di accoglierti con disponibilità.
In questo breve racconto provo a parlare ancora di Pescara, mio attuale luogo di residenza. Lo faccio nell’unico modo di cui sono capace. E la mia veloce sosta sul ‘Ponte del mare’ finisce col diventare un bel pretesto per ragionare, com’è di solito per me, in punta di cuore.
Buona lettura

A presto

Lucia

Tra cielo, mare e fiume*

Sono sospesa tra cielo e fiume.

Davanti a me la città che pulsa con le sue mille contraddizioni, le sue belle vetrine e i luoghi nascosti che faticano a svelarsi a chi non ha occhi attenti per coglierli.

Alle mie spalle c’è il mare, ora colto in un momento di quiete, dall’aspetto rasserenante come i colori che a quest’ora del crepuscolo lo caratterizzano.

La brezza scompiglia i miei capelli per ricordarmi che anche in un attimo di tranquillità siamo tutti soggetti alle leggi del mondo e alle sue bizzarrie.

Sono al centro di un universo che, al momento, non ha confini se non la mia capacità di dare libero sfogo ai miei pensieri.

Eppure non ho voglia di impegnare la mia mente in cose complicate. Il mio desiderio è quello di perdere il mio sguardo in questa immensità di acqua che cerca di abbracciare il cielo.
Poggiata al parapetto con entrambi i gomiti come da bambina quando, con attenzione, cercavo di cogliere ogni sillaba delle storie narrate da mia nonna, scruto l’acqua di fiume che lentamente scorre verso il mare, riflettendo la luce e i colori di questo tramonto miracoloso, felice epilogo di una giornata di sole incastonata tra giornate di pioggia silente, rassegnata, ottobrina.

Il fiume porta con sé rami spezzati rubati alla vegetazione e alle sponde che lo contengono. Lo fa con autorevolezza e con una pacatezza disarmante per riaffermare il suo pieno diritto a esistere, sia pure tra  le mille contraddizioni e i limiti a lui imposti dall’uomo.
Si trascina verso il mare a voler sottolineare che tutto va come deve andare, portando, però, sulla sua superficie un pezzo di cielo riflesso per segnalare che una possibilità di salvezza c’è sempre, basta saperla cogliere.
Il mare è lì ad attendere l’acqua di fiume che avanza senza sosta per un ultimo  abbraccio totale, coinvolgente.

Non esisterà più differenza tra dolce e salato, colore e consistenza si uniformeranno nella buona e nella cattiva sorte in un’unica grande onda grigio-azzurra verso l’indefinito.

I passanti si avvicendano l’un l’altro per scendere o salire, incrociandosi a poca distanza dal mio punto di osservazione. Lo fanno in silenzio, solcando a passi composti questo Ponte del Mare che è punto di unione tra due rive differenti. Rappresenta con sapienza il futuro con la sua voglia di fare e le sue grandi incognite, le delusioni sottili e la sorpresa gioiosa fatta di piccoli gesti di generosità e gentilezza gratuite.
Non ci sono ombre capaci di fugare la dolcezza di questo momento di sospensione temporale.
C’è solo la consapevolezza di appartenere al qui e all’ora, con l’entusiasmo di vivere ogni singolo soffio di vita come istante irripetibile e prezioso.

Qualsiasi cosa accada.

Oggi e per sempre.

Lucia Guida

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Pescara, Ponte del mare. Foto di Guerino Di Francesco

*L’articolo originale lo trovi qui

N.B. Storie di città è un progetto di scrittura in web. Visita la pagina per saperne di più.

#IoScrivoPerVoi

Cari amici virtuali e non, un piccolo gesto credo possa far molto per i territori colpiti dal sisma nei giorni scorsi.
Con la supervisione di Andrea Franco, scrittore ed editor, nascerà a breve un’antologia di racconti in e-book intitolata #ioscrivopervoi i cui proventi verranno interamente devoluti alle popolazioni dei comuni interessati.
Tra i tanti contributi ci sarà anche il mio.
Vi linko la pagina che potrete trovare su Facebook perché possiate darle un’occhiata, ‘mipiaciarla’, se siete utenti di questo social network aiutandola a crescere e, magari, comperare una copia quando l’opera sarà pronta.
All’iniziativa partecipa anche DestinazioneLibri (www.destinazionelibri.com).
Gli autori che avessero intenzione di inviare le loro opere (il loro racconto, unitamente ad una breve biografia) possono farlo fino a lunedì 29 agosto 2016, a seguenti indirizzi di posta elettronica: destinazionelibri@virgilio.it oppure a francoservizieditoriali@gmail.com.
Un abbraccio e un grazie di cuore a tutti coloro che aderiranno.

Lucia

 

io scrivo

#IoScrivoPerVoi è qui su Facebook

 

The Jazz Singer

Assistere a un concerto jazz della mia città e poi, partendo da suggestioni ed evocazioni melodiche, scrivere un racconto breve come il tempo di un respiro.

Buona lettura

 

A presto

 

 

The Jazz Singer

 

Katarzyna finì di truccarsi con cura alla smokey eyes.

Si ripeté che in quel camerino d’epoca, dalle pareti scrostate in più punti, era passato il gotha della musica contemporanea quasi a riconciliarsi con un presente che non la faceva star bene. Un orologio da muro profilato d’acciaio con il quadrante ingiallito scandiva il tempo, rassicurandola sulla possibilità di avere ancora tre quarti d’ora a disposizione prima della sua performance

 

Someday he’ll come along, The man I love
And he’ll be big and strong, The man I love
And when he comes my way
I’ll do my best to make him stay

 

A fine opera tornò a scrutarsi con occhi brillanti, appena velati, accendendosi tremante una sigaretta, mentre lo specchio le rimandava l’immagine di una donna dall’incarnato pallido, cosparso di efelidi leggere. Suo malgrado fu colpita dalla sua magrezza, evidenziata dalle spalline sottili nere della parigina che indossava. Il seno, piccolo e sodo, si intravedeva appena sotto la stoffa dell’indumento leggero. Si ripromise di indossare un reggiseno un po’ più voluminoso, pensando contestualmente a Michele e alla sua voglia di prenderla in giro prima di fare l’amore per quel petto da adolescente acerba da lei esibito senza veli con ingenua e sensuale presunzione in camera da letto.

Michele era il suo amore presente. Quello stesso Michele che l’aveva presa per mano soltanto un paio di mesi fa alla festa seguita a una esibizione dell’ensemble di cui faceva parte come vocalist, per portarla in fretta in una camera d’albergo di periferia prendendola con smania rabbiosa fino all’alba. Pretendendo da lei resa incondizionata e poi, nei giorni a seguire, addirittura amore. E lei glieli aveva elargiti entrambi a piene mani con imprudente leggerezza, concedendosi un’ombra di pentimento al pensiero degli impegni emotivo-sentimentali che lui aveva già: una compagna stretta a sé da un sodalizio affettivo-sentimental-professionale da cui difficilmente si sarebbe liberato. Ma, poi, lui ne aveva davvero voglia? Lei non avrebbe saputo dirlo, né avrebbe trovato coraggio sufficiente per chiederglielo negli attimi a lei concessi rubati alle sue tournée e alla sua vita di musicista famoso.

He’ll look at me and smile, I’ll understand
Then in a little while, He’ll take my hand
And though it seems absurd
I know we both won’t say a word

Schiacciando con mano tremante quello che restava di una sigaretta fumata con avidità in un portacenere sbreccato, abbandonato sulla toeletta da chissà chi, decise di alleggerire con un pennellino sottile il trucco agli occhi. A un certo punto le era parso troppo pesante e carico, conferendole un’aria drammatica da Pierrette che aveva voglia di dissimulare in qualche modo. Poi controllò febbrile il display del cellulare tenuto a soneria bassa tra i trucchi sparsi assieme a campioncini di creme per il viso e profumi griffati. Chiudendo gli occhi risentì la fragranza del dopobarba di lui mista al suo odore di uomo che non aveva avuto il coraggio di spazzar via con un colpo netto sotto la doccia, limitandosi a rivestirsi silenziosamente, facendo attenzione a non svegliarlo e godendo del suo viso appena scurito da un’ombra di barba, prima di infilare come una ladra la porta della camera d’albergo e andare via. Non le era dispiaciuto di trovarsi finalmente all’aperto in quel pomeriggio di primavera che era trionfo di aria leggera e colori brillanti per tutti ma non per lei, prima di incamminarsi a passo lento, quasi dolente, verso l’ingresso posteriore del teatro in cui quella sera si sarebbe esibita. Sperava di incrociarne la presenza, anche soltanto lo sguardo durante lo spettacolo. Avrebbe cantato per lui e lui solo, immolandosi sotto i riflettori per un uomo che la straziava dentro con un amore che era sofferenza pura di cui, paradossalmente, non riusciva a fare a meno.

Cantava sempre per Michele, con la disperazione e la consapevolezza che quel sentimento che le bruciava dentro era destinato ad affievolirsi nel momento in cui la noia avesse preso in Michele il posto della grandeur della novità iniziale. Si sentì vacillare ma attribuì la debolezza e la stanchezza che l’avevano assalita a quelle scarpe altissime che la costringevano ad avanzare in equilibrio precario e che lei aveva indossato per darsi un tono.

Tamponandosi il viso truccato in modo impeccabile decise di cingersi il collo con una sciarpa lunga di seta scarlatta per mascherare l’irruenza del suo amante e, forse, per nascondere a se stessa la pena di quell’amore che non riusciva a mandare via. Poi si pettinò lentamente, con cura, continuando a esaminarsi con occhio critico alla ricerca di una perfezione esteriore che non riusciva a percepire anche dentro di sé. I capelli a caschetto riacquistarono volume e uniformità sotto la sua mano attenta pronta a rimodellare qualsiasi loro intemperanza.  Si alzò dalla toeletta soltanto quando l’immagine che si era prefissa di raggiungere e quella che vedeva davanti a sé combaciarono in modo accettabile. Un goccio di vino rosso versato in un bicchiere appannato dal suo respiro fece il resto.

 

Sul palco gli altri erano già disposti come sempre, in sua attesa paziente e indulgente. Le volevano bene, lei lo sapeva, e questo pensiero aveva il potere di riscaldarle cuore e mente come ore di passione sfrenata, coinvolgente, ricercata non erano più in grado di fare. Katarzyna sorrise ma non con gli occhi, non ne aveva più la forza, prima di prendere slancio e raggiungerli. Era pur sempre una professionista e lo show doveva iniziare senza intralci ed eccessiva emotività.

Maybe I shall meet him Sunday,
Maybe Monday, maybe not
Still I’m sure to meet him one day
Maybe Tuesday will be my good news day

Il pubblico rumoreggiava con discrezione attendendo con calma che i teli rosso cupo del sipario fossero tratti da parte, alternando brandelli di conversazione reale a frasi smozzicate pronunciate virtualmente al cellulare. Assieme ai suoi compagni lei aspettò paziente che la platea si riempisse a dovere per permettere a una mano invisibile di aprire le scene dando inizio al concerto di musica jazz.

He’ll build a little home, That’s meant for two
From which I’ll never roam, Who would, would you

 

Katarzyna scostò per l’ultima volta un lembo della stoffa polverosa che la separava dagli spettatori e il suo cuore perse un battito mentre avvertiva con desolante chiarezza la presenza di due persone, una a lei nota accanto a un’altra a presidio e testimonianza inconfutabile della sua sconfitta palese, tra le prime file di quel teatro di provincia in cui lei aveva accettato di ritornare per un gesto di scaramanzia di cui si era già pentita. Sentì con urgenza il bisogno di bere un altro sorso di vino e maledisse la sua poca lungimiranza per aver lasciato in camerino la costosa bottiglia d’annata di Montepulciano, dono di un suo fan, stappata d’impulso in quel pomeriggio di malinconia per stemperare l’ansia che l’aveva assalita all’idea della fatica fisica e mentale che l’attendeva.

Nulla di nuovo sotto il suo personale cielo oltre a quella ferita che non aveva la forza necessaria di richiudere una volta per sempre con la perizia e l’asetticità di un chirurgo abile a fare a quel lavoro da una vita.

Guardandosi in uno specchio rimediatole da qualcuno all’ultimo momento si appuntò tra i capelli una gardenia bianca attenta a non toccarla troppo per non farla sfiorire prima del tempo, spianando le labbra generose e scarlatte in un sorriso prevedibile, volutamente ostentato. Poi fece un cenno col capo al pianista, comunicandogli di essere pronta. La musica avrebbe fatto il resto, contribuendo ad anestetizzare quello che rimaneva della sua tristezza, aiutandola a pagare un tributo dal prezzo esoso che sarebbe, comunque, stato apprezzato e consacrato da applausi genuini, quelli della gente che era lì per ascoltare lei e il suo ensemble.

And so all else above

I’m dreaming of the man I love

Il silenzio calò in sala nell’attimo in cui il precario ondeggio delle quinte trovò compiutezza nella loro apertura lenta, dissimulata. Molti decisero di immortalare in foto estemporanee di tablet e cellulari il prologo di quel concerto con i suoi protagonisti, stagliati contro lo sfondo minimal del palcoscenico come statue di marmo in un giardino antico pronte ad animarsi e prender vita al minimo cenno.

Nessuno pensò al mondo di fragilità ben nascosto in quella figura di donna esile, vestita di nero mitigato da una sciarpa coloratissima avvolta attorno al collo sottile e una gardenia bianca appuntata tra i capelli corti e lucenti, desiderosa di dare il meglio di sé.

A lei non rimase che stare al gioco e accontentarli.

Decise di dedicare la propria ammissione di impotenza a un destino che aveva bisogno di andare avanti senza che qualcuno potesse fermarlo con una semplice alzata di mano.

Poi sorrise all’immagine lontana e sfocata di Billie Holiday e iniziò a cantare.

 

Lucia Guida

 

                                                                                             20_vettriano

‘Only the Deepest Red’, Jack Vettriano

Racconto di Natale

Un piccolo cadeau di Natale per tutti i naviganti che passano di qui.
Un racconto scritto tempo fa in punta di penna e di cuore.

Buona lettura e Buone Feste a tutti

A presto

 

Racconto di Natale

– Signor Enio, tu sveglia per favore … – Scuotendolo gentilmente ma con decisione Lupe lo spinse ad aprire finalmente gli occhi nella luce soffusa di quel soggiorno minimal chic giocato tutto sui toni del bianco e del nero. Lui si passò stanco una mano sul volto mettendo la donna a fuoco. Lupe gli sorrise tirando in silenzio un sospiro di sollievo; quello di chi, in una giornata speciale come la vigilia di Natale, non vede l’ora di poter tornare ai propri affetti. Rapidamente lo ragguagliò su quanto aveva per lui predisposto: aveva riempito il frigo in previsione degli imminenti giorni di festa e cucinato qualcosa che ora lo aspettava in caldo nel forno. Riordinato accuratamente la casa per intero. Portati in lavanderia abiti e biancheria da rinfrescare; riposto nei cassetti cambi e indumenti puliti. Dato acqua alle piante in veranda.  Ritirata la posta in portineria. Tutto questo mentre lui aveva innaturalmente continuato a sonnecchiare stravaccato sul divano, la TV accesa di sottofondo da chissà quanto tempo. La ringraziò con un sorriso appena accennato porgendole una busta. Lupe si inchinò contenta e, stringendosi nel piumino rosa, afferrò la borsetta chiudendosi piano la porta di casa alle spalle. Adesso poteva ben definirsi solo. Sentì la gola bruciargli innaturalmente, tormentato dal cerchio alla testa a testimonianza di parecchie ore trascorse a ingurgitare brandy di primissima scelta invecchiato a lungo in botti di rovere. Si alzò con difficoltà, portò in cucina quel che era rimasto in un bicchiere svuotandolo nel lavello mentre provava per se stesso compassione mista a insofferenza.     Cinquantadue    anni ben   portati,  fisico asciutto e longilineo, capelli brizzolati. Il prototipo dell’uomo di successo, realizzato e rampante. Arrivato. A un traguardo a oggi percepito come terra desolata, infinitamente triste. C’era stato un tempo in cui con orgoglio aveva pensato a quello che era riuscito, con abili colpi di mano, a evitare: le responsabilità di una famiglia, un amore di donna certo e sicuro. Un’esistenza scandita da quotidianità giudicata banale e indegna della sua intelligenza, della sua sete di vivere. Avere una figlia di venticinque anni e non sapere niente di lei: il colore degli occhi, il tipo di camminata, i suoi gusti a tavola. A un certo punto, però, la vita gli aveva presentato il conto per il tramite di Elle. Lei lo aveva stregato facendolo, nell’arco di pochissimo tempo, innamorare follemente. E lui le aveva ceduto mettendosi finalmente in gioco come uomo.  A chi gli aveva chiesto una volta quante donne potesse aver conosciuto e portato a letto, aveva con noncuranza risposto “Mai  quante ne avrei volute“, continuando a nuotare a pelo d’acqua con disinvoltura senza timore di andare a fondo. Ma quell’ immortalità sentimentale guadagnata con sfrontatezza si era sciolta come neve al sole davanti a Elle rendendolo vulnerabile, umano. Pronto a bruciarsi le ali svolazzando come una falena attratta da un lampione luminoso. Poi era successo che lei era sparita dall’oggi al domani senza una spiegazione. Dileguandosi in fretta così come era comparsa. Portandolo allo stremo, lui che si era sempre fatto beffe della sofferenza amorosa altrui. Ed eccolo lì, con un retrogusto amaro in bocca, a osservare da mero spettatore la vita da lontano, attraverso l’immensa vetrata del suo bell’appartamento in centro. All’improvviso si sentì soffocare. Aveva bisogno di aria fresca e di sgranchirsi le gambe. In pochi minuti fu all’aperto tra i passanti dediti alle ultime spese e il traffico impazzito delle serate di festa, sospinto suo malgrado dal vortice concitato di chi aveva qualcosa o qualcuno a cui tornare. Fu con autentica sorpresa che sentì un passante aggrapparsi al suo braccio destro e dopo alcuni istanti accasciarsi davanti a lui. Era una lei. Giovanissima e avvolta in un vivacissimo poncho di lana lavorato a mano,  caduta letteralmente ai suoi piedi con la lievità di un mucchio di foglie autunnali sparpagliate da un’improvvisa folata di vento.

– Aiutami … – farfugliò poi, prima di perdere del tutto i sensi tra le sue braccia lasciandolo attonito. Facendosi strada tra la moltitudine vociante e festosa la depose all’interno di un taxi preso al volo notando finalmente come fosse incinta e, per quello che poteva capirne, giunta al termine della gravidanza.

– Ci porti all’ospedale più vicino – intimò concitato all’autista che partì sgommando sorridendo al tono di quel neo papà impacciato, non più giovanissimo e tuttavia in ansia come miliardi di padri prima di lui per la nascita di suo figlio.

– Coraggio – commentò il tassista frenando delicatamente davanti alla porta del Pronto Soccorso – Ormai il più è fatto. La corsa è omaggio. Il mio regalo di Natale per lei e sua moglie – concluse prima di volatilizzarsi nel flusso incessante degli autoveicoli in spasmodica corsa verso casa. Enio sedette sfinito sulla panca del reparto maternità, incurante dei commenti altrui sull’afasia che sembrava averlo colpito. La sua compagna, invece si che aveva ben saputo far fronte a quanto richiestole, partorendo in quattro e quattr’otto una bellissima neonata dagli enormi  occhi scuri.

Gliel’avevano messa tra le braccia senza troppe cerimonie, accompagnandolo nella camerata in cui la madre riposava. E a lui, incredulo, non era rimasto che continuare a stare al gioco deponendola nella culletta al lato della sconosciuta. Quando questa si era finalmente svegliata l’aveva salutato con un semplice ciao accompagnato da un sorriso di scusa e di ringraziamento prima che la piccola reclamasse da loro nuova attenzione, attirando i loro sguardi verso di sé. Lui si era girato verso la finestra con occhi stranamente liquidi e aveva pensato a quella figlia che non aveva voluto e che pure era nata e viveva in chissà quale parte del mondo. Poi era tornato in sé.

– Devo andare – aveva detto a entrambe brusco.

Voltandosi aveva, però, aggiunto a voce bassa “Torno domani a trovarvi”. Lei gli aveva sorriso con naturalezza e aveva annuito.

Si era allontanato in corridoio accompagnato da quel pianto di bimba affamata di latte e calore materno sentendosi stranamente leggero.

Mezzanotte passata e già Natale.

Con forza aveva inspirato e, a passo svelto e deciso, si era incamminato nella notte verso casa.

 

Lucia Guida

 

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photo credits: diarionordico.com