Carillon

La maternità è una delle esperienze esistenziali  più complesse offerte a una donna ed è mia ferma convinzione che spetti alla donna in primis scegliere come gestirla. Decidendo della propria e altrui vita con libertà assoluta e parimenti con  estrema consapevolezza.

Il racconto di oggi, intitolato Carillon, si colloca “nel mezzo del cammino”, dando voce alle riflessioni di una donna che aspetta un figlio che non ha scelto di avere. Nella narrazione del fotogramma infinitesimale di una giornata come tante c’è posto per i ricordi passati della protagonista, per un brivido breve ma intenso del suo presente ma non per una conclusione netta, definita.

Sarà responsabilità del lettore dargliene una. Ricordando, tuttavia, che non c’è ferita o gioia al mondo che per ciascuno di noi non si ripercuota per una sola e unica stagione.

 

 

Carillon

La donna tirò lieve la cordicella del carillon e musica odorosa di borotalco e di piume leggere si diffuse nella penombra della camera da letto, rischiarata da un abat-jour dal cappello ampio e chiaro. L’illuminazione soffusa e tenue attutiva percettibilmente i pensieri, tanti e grevi, che le frullavano per la testa da un po’ di giorni. Da quando quel referto di laboratorio le aveva dimostrato inconfutabilmente come la vita conserva sempre una certa tendenza a riaffermare il proprio diritto a sovrastare la storia personale di ciascun essere umano, optando talvolta per  il momento meno opportuno per farlo, incurante di ritmi o equilibri preesistenti ed imponendo scelte.

Ed eccola lì, seduta sul bordo del letto accuratamente rifatto, a interrogarsi sul da farsi. L’unica nota dissonante quella musica per neonati rassicurante e morbida come il topolino di stoffa che la conteneva, vestito in toni pastello, che invitava ad una pacatezza che a lei in quel momento sfuggiva, che non sapeva fare propria.

Quarant’anni, un lavoro di tutto rispetto, una casa di proprietà, begli amici, un amico del cuore. E un figlio in arrivo. Inaspettato, non preventivato e tuttavia in viaggio già da un po’.

Giunto quando oramai lei non se l’aspettava più, rassegnata felicemente ad un avvenire di singletudine conclamata impostole dalle circostanze  e che lei aveva comunque accettato e fatto proprio.

Qualcuno l’avrebbe potuto considerare un segno del destino, un orologio biologico che le ricordava come tutto avesse una fine oltre che un inizio. Un barlume di eternità che le si era paventato a un certo punto del suo cammino esistenziale e a cui oggi, forse, non riusciva  a dare il dovuto risalto.

C’erano stati tempi in cui lei aveva sognato di diventare madre come giusta conclusione di cicli che si compivano. Erano quelli gli anni in cui credeva all’amore di una vita, quello che ti dà la forza di rivoluzionare il tuo mondo adeguandolo in parte  alle esigenze di terzi. Un amore bagnato di eternità, fatto di tranquilla quotidianità, di passione che potrebbe mutarsi in stabile e duraturo affetto. Di anniversari da rispettare e onorare, di spese al supermercato insieme e di cenette elaborate nella piena considerazione dei gusti di un altrui maschile.

Ma quell’epoca era inevitabilmente terminata e sfumata in un addio maturato in maniera graduale  annunciato da piccoli e impercettibili segnali, chiarissimi all’esterno,  che pure a lei erano sfuggiti.  E quando la quotidianità fatta di tenerezza si era tramutata in abitudine priva di rinnovamento ed entusiasmo, lei aveva detto “basta” anche per lui che, grato, l’aveva salutata con la promessa di farsi risentire a scadenze fisse. Da amico affettuoso che continua a volerti bene ma in modo differente. Riservando probabilmente, lei lo sentiva, un’attenzione privilegiata ed esclusiva ad altre. Tanto era servito a farla svoltare senza guardarsi indietro e a dedicare tutte le sue energie ad affermarsi professionalmente, accettando di popolare amichevolmente il suo tempo libero e di scegliersi un amico con cui condividere i suoi momenti di privacy e di relax.

Sorrise al pensiero di annunciare all’uomo che riempiva il suo presente di essere incinta di lui. Impensabile, improponibile. Paradossalmente assurdo.  Come si fa a comunicare a un eterno peter pan che non avrà più tempo da dedicare ai suoi passatempi preferiti perché molto verosimilmente potrebbe trascorrere ore ed ore accudendo un neonato bisognoso di cure infinite? Privato in aggiunta dell’infinita libertà di cui ha sempre goduto? A una persona che si è sempre posta al centro dell’universo vivendo senza vincoli né costrizioni, cominciando dal campare alla giornata senza programmi di sorta che non siano quelli legati alla mera sopravvivenza?

Non gliel’avrebbe detto, non aveva senso alcuno mettere al corrente di un evento così delicato una persona abituata a navigare, sia pure in mari ultra conosciuti, scientemente senza timone e a seconda del vento che spira al momento.

E cosa dire di se stessa e dell’impulso che l’aveva spinta a cedere senza un apparente perché all’acquisto di un carillon? Vederlo in una vetrina di articoli per la prima infanzia   e portarlo via con sé, ben mimetizzato nell’elegante borsa portadocumenti, era stata questione di pochi minuti. Il carillon era finito in un cassetto del comò e lei, con un sottile senso di colpa, l’aveva lasciato sotto  lì per un po’, quasi a riflettere sul da farsi. Sentendo d’improvviso e  inspiegabilmente il bisogno di tirarlo fuori quella sera di fine autunno per farlo trillare nella sua camera da letto minimal chic così perfettamente in ordine.

Sapeva che sarebbero occorsi ancora pochi istanti e il topino di stoffa avrebbe smesso di vibrare cessando di ninnare la sua ascoltatrice silenziosa. Attraverso la tenda accuratamente tirata osservò dalla finestra la sagoma di un albero ondeggiare nel vento della sera, ripetendosi mentalmente che tutto sarebbe tornato a posto, che ogni cosa avrebbe ripreso la sua collocazione solita. Che i suoi pensieri, anch’essi ben allineati, avrebbero seguitato a dipanarsi secondo un ordine prestabilito e rassicurante.

Ma sarebbe stato davvero così?

L. Guida

” Silenzio assordante “, dipinto di Giovimartin

Time Passages

A volte aspettare è l’unica cosa che resta.

Il mondo e le cose vanno come devono andare, secondo ritmi che assai spesso ci sfuggono ma che hanno, tuttavia, la preziosità di farci riflettere su noi stessi e su ciò che siamo secondo ritmi biologici più naturali, certamente più umani.

E la poesia, con il suo andamento lento, aggraziato ed elegante è l’unica possibilità che abbiamo per fermare nel tempo le piccole pause da cui sono scanditi i nostri passi nel flusso dell’esistenza. Con incisiva, profonda verosimiglianza.

 

 

Giorni

 

Non è con affanno

né con mera malinconia.

Non con impaziente scalpitio

né con apatica rassegnazione.

Non sotto una pioggia incessante

né in un deserto senza ombra o palmizi.

E’ sull’onda morbida

dell’altalena  dei miei ricordi

di bimba che aspetto,

pronta a spiccare

quel salto in terra.

Fortunatamente

non ancora sazia di vita.

Curiosa viaggiatrice

del mondo

con fardelli lievi

stretti tra le braccia,

avvolti in tessuto

di brillante

e robusta esperienza.

Lucia Guida

” Daydreaming on Swing “, silk painting by L. Reznikova