Briciole di precaria e ordinaria felicità

Un lavoro che sfuma via e un figlio inatteso che preme per nascere sono le novità piombate all’improvviso nella routine di Giulio e Maura, sconvolgendo la loro vita di coppia consolidata. Dopo un periodo di comprensibile disorientamento entrambi sapranno trasformare questo terremoto esistenziale in una concreta opportunità di crescita. Assieme a una felicità da centellinare poco a poco e, forse, per questo, molto più intensa da assaporare.

Buona lettura e buon ferragosto

A presto

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Giulio respirò a fondo nell’aria frizzantina di primo mattino guardando gli altri pendolari sparpagliati sotto la pensilina che li accoglieva. Incrociare ogni giorno le loro occhiate, durante l’attesa di quella corsa bis extraurbana che li avrebbe portati al lavoro, lo faceva sentire stranamente in compagnia e pervaso da una forza maggiore.

Immerso in una sorta di amarcord dal sapore agrodolce rammentò come appena un anno fa avesse concesso un’attenzione davvero marginale alle indiscrezioni delle segretarie di direzione, tiratissime in pausa caffè, su possibili tagli in ditta. Una trascuratezza, la sua, ampiamente giustificata dalla notizia di un figlio in arrivo.

Maura, la sua compagna, gli aveva detto del lieto evento una sera come tante mentre erano davanti alla portafinestra della loro mansarda, aperta su un cielo illuminato da una luna ruffiana che gli era rimasta impressa dentro. Prima di sussurrargli la novità con voce sbarazzina l’aveva guardato con occhi brillanti ma ciò non aveva impedito che gli mancasse un battito. Scoprire che a breve sarebbe diventato padre, prospettiva sino a quell’istante considerata  piuttosto remota, l’aveva del tutto e irrimediabilmente spiazzato. Stretto a lei aveva contrabbandato vigliaccamente lo smarrimento della propria voce per genuina commozione passando il resto della notte ad ascoltare il respiro regolare della sua donna, già madre conclamata di quel bimbo in viaggio, per lui, invece, immagine ancora così indefinita.

Poi le cose erano precipitate in un attimo.

La sua azienda, apparentemente in ottima salute, si era decisa a delocalizzare, trasferendo la produzione oltremare e smantellando anche gli uffici amministrativi in cui Giulio lavorava dai tempi del diploma. L’aveva riferito di getto a Maura non appena aveva saputo, interrompendola nella vivace descrizione del suo primo sopralluogo in un negozio di articoli di prima infanzia. Lei aveva socchiuso gli occhi, come per proteggerli da una folata traditrice di vento, poi li aveva riaperti sorridendogli incoraggiante. Quella notte avevano fatto l’amore con fantasia e generosità, lo sguardo dell’una avvinghiato a quello dell’altro come ai primi tempi della loro storia. Addormentandosi quasi all’unisono, stremati dalla passione.

L’ultimo mese di lavoro di Giulio era passato in fretta ed erano arrivati alla prima ecografia del bambino. Vedere quel puntino luminoso pulsare già con tanta vitalità gli aveva fatto lo stesso effetto di un giro sulle montagne russe da ragazzo. Aveva ascoltato con attenzione le parole dell’ecografista prestandosi, più tardi, a casa dei genitori di lei, agli sguardi emozionati e alle congratulazioni di tutti, alle pacche di approvazione di suo cognato e alla pianificazione complice del loro matrimonio da parte delle donne di famiglia. Rientrato a casa aveva deciso di concedersi in solitudine l’ultima sigaretta della giornata sul minuscolo terrazzo, incurante del freddo penetrante di quella città di mare così umida e gelida d’inverno.

«Ce la faremo», erano state le uniche parole di lei prima di abbracciarlo e baciarlo su una guancia, piombando poi velocemente nel sonno e lasciandolo ai suoi tanti pensieri.

Il pomeriggio successivo l’aveva trovata a contemplare assorta la sottile striscia di mare grigiazzurro dalla finestra.

«Tutto bene?». Alla sua voce lei era trasalita come una bimba nel pieno di una marachella, annuendo subito dopo con un sorriso senza guardarlo. A poca distanza, in uno scatolone, c’era un bel po’ di roba che aveva tutta l’aria di essere stata cestinata da poco. Maura l’aveva trascinato sul divano chiedendogli con nonchalance di quel rientro anticipato. Si era stretto nelle spalle e aveva risposto che oramai in ufficio non c’era più molto da fare. Allora lei l’aveva finalmente fissato, gli occhi castani appena coperti da un velo in cui lui era riuscito a scorgere fragilità e forza assieme che gli avevano smosso qualcosa dentro. Con tono allegro le aveva proposto una camminata sulla battigia, il viso di entrambi sferzato dalla brezza marina, avvolti dal calore mite dei raggi di sole di novembre.

A casa, mentre lei era sotto la doccia, si era ricordato del cestino cedendo alla tentazione di ispezionarlo velocemente, scoprendovi, accartocciati, campioni di partecipazioni nuziali, un menu del ristorante in cui l’aveva portata al loro primo appuntamento e il modello di un abito da sposa molto romantico che aveva tutta l’aria di essere troppo costoso. Mentre cenavano davanti alla TV, dividendosi tranci di pizza e facendo zapping tra un telefilm e un talk show, lei aveva ricevuto la telefonata di sua madre e, con una smorfia, s’era portata in bagno il cordless per risponderle. In principio lui l’aveva sentita discutere a lungo con foga; poi, silenzio assoluto. Con occhi fiammeggianti e appena un cenno di insofferenza   gli si era nuovamente accoccolata accanto e lui aveva, per quella sera, deciso di glissare sui tanti perché che gli ronzavano dentro, simulando un’indifferenza che non provava e che gli aveva lasciato in bocca un retrogusto fatto d’inquietudine.

L’indomani a pranzo sua suocera l’aveva squadrato in tralice ma non aveva osato dire nulla. Ci aveva pensato suo cognato a illuminarlo col suo solito fare sbrigativo e schietto.

«Allora, un brindisi al Caffé Excelsior e una cerimonia in Comune per pochi intimi mi pare ‘na figata …», aveva esordito tra un caffè e una sigaretta in punta di dita.

«… e chi se lo dimentica il nostro pranzo di nozze, cinque ore di durata, scambio di convenevoli e danze incluse. ‘Na maratona»

Giulio l’aveva ascoltato con ostentata noncuranza senza tentare di replicare, decidendo di stare al gioco.

«Cosa confabulate voi due?» aveva voluto sapere Maura, intromettendosi; e, senza attendere risposta, l’aveva preso per mano e portato via con sé.

In auto lui aveva ripreso l’argomento mentre lei si osservava critica in uno specchio da borsetta.

«Allora, pare che ci sposiamo in Comune e non più in chiesa».

Lei aveva richiuso di scatto lo specchietto.

«Geniale, vero? Pensa a quanto stress ci eviteremo».

«E tua madre che ne dice?» l’aveva solleticata lui con una punta di malizia.

«… proprio nulla. E’ il nostro matrimonio o sbaglio? »

Lui aveva silenziosamente annuito. A quanto pareva la decisione era stata presa e, a mente fredda, gli pareva l’unica possibile, viste le circostanze. Un neonato in viaggio e il lavoro part-time di lei, al momento loro unica fonte di sussistenza, non erano uno scherzo. Quella notte, tuttavia, l’aveva sentita agitarsi parecchio, trattenendosi a stento dallo svegliarla per riportarla a una realtà più benevola. A un certo punto gli era addirittura parso di sentire mormorare il proprio nome e ciò gli aveva procurato una botta d’insonnia senza precedenti che l’aveva condotto insofferente alle prime luci dell’alba. Aiutandolo, tuttavia, a partorire un’idea nuova.

«Buondì!»

Maura aveva atteso pazientemente che lui aprisse gli occhi. Quel giorno per lei c’era l’allettante prospettiva di una mattinata libera con riapertura nel pomeriggio della caffetteria in cui lavorava. Per lui, invece, tanta libertà era conquista amara e recente a seguito della perdita del lavoro. Con dolcezza gli aveva accarezzato con le dita quell’ombra di barba traditrice che gli era spuntata nottetempo e che le piaceva sempre da matti.

Appagato, Giulio aveva poggiato nuovamente la testa sul cuscino prima di rialzarla di scatto, colto da un moto repentino. C’erano un paio di cose da sistemare che non potevano essere rimandate.

Vestito di tutto punto aveva finito in un attimo il suo caffè, pescato un biscotto al cioccolato da una scatola di latta, prima di baciarla e infilare la porta di casa.

«A dopo», l’aveva salutata laconico, strizzando un occhio.

Maura l’aveva guardato perplessa, riflettendo sugli sbalzi d’umore dei futuri padri, che nulla avevano da invidiare a quelli delle loro compagne.

Ringraziando mentalmente di cuore un amico che gli aveva fatto sapere di quell’offerta di lavoro da magazziniere appena accettata, Giulio si era toccato la tasca interna della giacca per assicurarsi che conteneva ancora l’assegno con l’anticipo richiesto al suo nuovo datore di lavoro con una formidabile faccia tosta. Quasi uno stipendio. Poi si era fermato davanti a una gioielleria scrutandone con serietà la vetrina, prima di entrare e uscirne dopo parecchio con un pacchetto minuscolo tra le dita.

Il Caffè delle rose era ancora chiuso al pubblico ma lui era passato dal retro com’era consuetudine per lo staff. Maura era nell’ufficetto di fianco al laboratorio intenta a visionare un file di contabilità, l’uniforme a righine che le tirava sul seno e sulla pancia arrotondata, già pronta a montare di servizio in cassa.

«Ma cosa …»

Lui l’aveva guardata con espressione strana, poi le aveva spinto sulla tastiera la scatolina confezionata con cura.

«Per te. Forse questa è l’unica cosa di valore che ti regalerò. Niente rispetto a quello che tu, che voi, significate per me»

Una perla minuscola, luminosa, incastonata in un cerchietto dorato sottile.

Maura l’aveva tenuta sul palmo della mano senza avere il coraggio di infilarla al dito. Ci aveva pensato a farlo lui con determinazione, con una sorta di amore rabbioso.

«Ti amo. E voglio te e il bambino» le aveva poi detto, con altrettanta foga e un accenno impercettibile e autentico di tenerezza. Allora lei gli aveva afferrato il viso d’impulso, baciandolo con avidità, quasi con sfida. Di quelle briciole di felicità precaria aveva voglia di gustare anche la più infinitesimale a partire da quell’istante unico e perfetto, stabilì.

Dio solo sapeva per quanto tempo ancora avrebbero vissuto in quel paradiso in bilico che era la loro vita dell’oggi. E tuttavia le boccate d’ossigeno di quell’amore sincero sarebbero state per loro sacrosante per vivere e persino per sognare, come l’aria pura del vento di tramontana respirata ogni mattina sul terrazzo della loro casetta di periferia. Sarebbe stata quella voglia d’infinito che li legava così stretti il loro personale tetto del mondo. Un trampolino di lancio da cui spiccare il volo verso l’alto, in un cielo terso e azzurro senza sorprese,  incredibilmente pieno di speranza, oltre le nuvole.

Lucia Guida

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               “Separazione”, dipinto di E. Munch