La storia perfetta

Esisterà la storia perfetta? Quella in cui fabula e intreccio si compenetrano alla perfezione con naturalità, senza che siano stati operati interventi forzosi di vario tipo a titolo preventivo, e cioè prima che l’opera prenda la strada della pubblicazione? Me lo chiedo e ve lo chiedo in quest’articolo pubblicato qualche giorno fa sulla mia pagina di LiberArti

Buona lettura e buon weekend

 

La storia perfetta

Esisterà la storia perfetta? Per intenderci, quella rispondente a tutto ciò che possa renderla tale, e cioè   decaloghi scrupolosi  e certosini, minuziosamente stilati dal gotha scrittorio, supportati magari da preediting sapienti, meditati, compassati. Rituali pedissequamente onorati prima di inviarle a chi conta e sa: a chi può, volendo e potendo, pubblicarle.

Un po’ come andare dal tuo chirurgo plastico di fiducia, promemoria alla mano, chiedendogli di incavarti gli zigomi, spianare inopportune rughe d’espressione, ridurti o aumentarti di una taglia il seno, scolpirti con una poderosa opera di liposuzione l’addome. E poi ci sarebbero i polpacci da rimodellare, la pelle cadente delle braccia che, figurarsi, a una certa età è evidentissima e va rimessa a posto. Al resto ci penseranno un personal trainer e una dieta favolosa iperproteica, possibilmente à la page. Ma poi, vuoi mettere di te cosa ne verrà fuori? Una te stessa strarifinita, bella da paura. E irrimediabilmente diversa (e lontana) dalla tua essenza più vera e genuina.

E il lettore che ti ha conosciuto per quello che tu, autore, nel bene o nel male ab origine eri? Quel lettore che, forse, ti ha apprezzato per i tuoi pregi e i tuoi difetti, riconoscendosi anche nelle tue défaillance più o meno consapevoli ed evidenti, perché, si sa, anche un autore ha un cuore. Quel lettore, dico, come la prenderà? Se farà parte della folta schiera di lettori beneducati, pronti ad accettare a buon viso qualsiasi prodotto mediaticamente presentato ad hoc, beh, probabilmente accetterà anche la tua nuova personalità scrittoria. Ma siamo davvero sicuri che sia proprio questa la categoria di lettori preferita da uno scrittore?

Mi viene in mente un racconto tratto dal mio primo lavoro pubblicato da autrice solista, intitolato “Bella bella bella” in cui Sara, la protagonista, faceva del proprio corpo oggetto di culto esasperato nella prospettiva impossibile e vana di fermare l’inesorabile scorrere del tempo. La scrittura, come del resto ogni altra arte, è fatta di crescite e decrescite. Di percorsi più o meno lineari, rettilinei, solo nella migliore delle ipotesi in piano. E non esiste regola o diktat che tenga se a te, autore, mancano lo slancio, la forza, quel quid in più che ti distingue dagli altri e che riaffiorerà, come gioielleria barbarica, anche in un testo poco limato. Poco affinato, attenzione, e non stravolto e snaturato dalla penna abile, disincantata, smaliziata e complice di un editor a cui tu, autore, travolto dalla frenesia di pubblicare tutto e subito, hai concesso carta bianca a oltranza.

Non tutto ciò che si scrive è pubblicabile. La frase non è mia ma di un editor di professione. Eppure l’offerta editoriale odierna è ricca di opere, ( in origine lontane anni luce dai parametri essenziali editoriali), che poi tali sono diventate dopo un restyling accurato e circostanziato, mirato a procacciare l’attenzione del lettore medio, per giungere all’agognato traguardo della pubblicazione. Qualcuno lo chiamerebbe accanimento terapeutico, prefigurando l‘immagine di un paziente a cui sono stati trapiantati tutti gli organi vitali possibili, certamente restituito a nuova vita. Ma a che vita, ci si chiederebbe? Una vita propria o mutuata da altri, seppure con le migliori intenzioni?

Appartengo alla scuola di pensiero secondo la quale l’originalità e l’incisività di un autore si collocano proprio a metà tra la perfezione formale, anche linguistica ed espressiva, e la talentuosità latente in ciascun appartenente a questa categoria di artisti. Eppure è proprio questa seconda caratteristica quella che permette di superare ostacoli di ogni genere, a dispetto della prima, sebbene opzione necessaria. E quindi, cui prodest?

Per come la vedo io non esiste la storia perfetta intesa come un insieme di vicende talmente ben congegnate da prendere il lettore per intero e subito. Semplicemente perché nella scrittura, come del resto in molte altre arti, tutto ciò che era possibile esprimere è stato detto, esplicitato, metabolizzato, sia pure a livelli di differenziazione varabili. E visto che ciò che era umanamente proponibile è stato già presentato sia pure in salsa differente, la grandezza (o, se preferite, la bravura) di un autore sta nel riproporre, attraverso sapienti variazioni su tema, quanto migliaia di altri scrittori più o meno importanti hanno cercato di rendere attraverso un uso della scrittura a volte più attento, altre volte un po’ meno, combinando in modo diverso il proprio pensiero e l’uso e la padronanza di significato e significante della parola.

Personalmente credo che la nuova frontiera risieda, appunto, in un utilizzo certamente non improvvisato né ridondante di quest’ultima, molto più che nella ricerca di situazioni mirabolanti e tali da colpire l’attenzione di un lettore sempre più costretto a digerire testi di varia pezzatura, proposti da un mercato editoriale molto più propenso, per mera sopravvivenza, a tollerare interferenze di natura consumistica piuttosto che, invece, osare, con forza e coraggio doverosi, attraverso opere di qualità certa, sostanziale.

Due giovani innamorati pronti a morire per rendere eterno il loro amore da un lato; dall’altro due innamorati pronti a lottare fino alla fine per poter vivere in piena quotidianità il loro sentimento: due trame semplici, fin troppo scontate, eppure perni di due narratività diverse, quella inglese e quella italiana. Il miracolo compiuto da Shakespeare e da Manzoni è stato quello di rendere talmente verosimili e coinvolgenti due storielle all’apparenza di poco conto, seppure mutuate da una quotidianità storicamente concreta, rendendole immortali tanto da concedere con estrema benevolenza ai posteri di farne uso smisurato fino a sfiorare l’abuso.

Due grandi della letteratura, mi direte voi; tra l’altro neanche contemporanei l’uno all’altro. Eppure capaci, per il modo affascinante di trattare una materia all’apparenza così routinaria, di appassionare generazioni e generazioni di lettori, per altro minimamente l’un contro l’altro armati o pronti a schierarsi da una sola parte della barricata.

Non sottovalutiamo il lettore, mai. Il lettore è per la stragrande maggioranza un essere pensante, sa scegliere e sa operare le dovute distinzioni. Checché se ne dica o si immagini. Evitando soprattutto di portarlo in giro vendendogli specchietti per le allodole. Piuttosto che sprecare energie preziose in contese di poco spessore facciamo in modo di onorarlo sempre, di non deluderlo mai: creando per lui qualcosa di unico, di caleidoscopico, se siamo in grado di farlo. Altrimenti proviamo, per un istante, a fare un passo indietro, ascoltando chi sa usare la parola meglio di noi, magari con consapevolezza e sobrietà maggiori.

Lucia Guida

 

N.B. : Il link originale del mio articolo lo trovate qui

 

                       

 Photo taken from Writing Forward

Il cielo resta sempre

Una ragazza alle prese con una quotidianità scialba e con un amore che fa male decide di punto in bianco di cambiare rotta e andare via. Dirigendosi verso il mare e la sua grande apertura, alla ricerca di nuove possibilità  di vita; scoprendo all’improvviso di non avere mai smesso di volersi bene.

Buona lettura

 

Il cielo resta sempre*

La percezione era quella, spiacevole, di un malessere subdolo e serpeggiante. Un senso di disagio che si insinuava in lei in profondità sin dal risveglio scandendo la sua quotidianità passo dopo passo, inesorabilmente. Un accenno di nausea che la prendeva all’improvviso accompagnato da una sensazione di vertigine che l’attanagliava a tradimento, facendole desiderare distese sconfinate di erba verde ondeggiante al vento dal chiuso di quell’ufficio minuscolo in cui da circa tre anni svolgeva la sua attività di contabile part-time. All’inizio le era bastato inspirare profondamente davanti alla finestra aperta e ripetersi che tutto andava bene, che tutto sarebbe andato a posto. Ma quel sollievo momentaneo non era durato a lungo e lei si era trovata a fronteggiare da sola, specialmente in orario di lavoro, attacchi d’ansia dalla portata devastante che nemmeno l’idea consolatoria di poter, a una certa ora, fare ritorno a casa, riuscivano a smorzare. Rifugiarsi in quella stanza minuscola dell’appartamento in condivisione con altre tre ragazze era stata da sempre la sua ancora di salvezza ma ora non le bastava più al pensiero di un presente che era un meschino tirare a campare e nulla più. Un’esistenza appesantita anche dalla storia di poco conto con un cliente della ditta per cui lavorava. Si erano conosciuti discutendo animatamente per una partita di appariscenti borse made in china griffate da lui ordinate da tempo immemore che tardavano ad arrivare. Lei era stata la prescelta mandata in avanscoperta per tentare di placarne le ire, contando sul fatto che l’altro avrebbe contenuto le proprie rimostranze alla vista di quella figura femminile esile, capelli corti e occhi scuri grandissimi in un viso dall’incarnato diafano. Una ragazza d’altri tempi. Stando tacitamente al gioco, si era scusata per l’inconveniente promettendo con solennità di risolvere personalmente la faccenda in tempi brevi. Erano finiti a prendere un caffè a un tavolino del bar Ideal all’angolo frequentato da avventori occasionali e rappresentanti annoiati in cerca di uno stacco minimo prima di poter andare avanti nel prosieguo della giornata. Lui le aveva preso la mano per leggerle il futuro ostentando la sottile fede d’oro che indossava. Dopo meno di una settimana si erano rivisti in un motel a ridosso dell’autostrada ed erano diventati amanti, con un patto di reciproca non interferenza suggellato dalle volute di fumo azzurrino della sigaretta di lui e dallo sguardo di lei al soffitto, concentrato sul movimento vorticoso di un immenso e vetusto ventilatore a pale impegnato a stemperare l’atmosfera rarefatta di un venerdì sera come tanti.

Può un cioccolatino dall’aspetto invitante saziare un affamato? Se l’era chiesto più volte; concludendo amaramente che non era possibile e tuttavia continuando a non mancare a nessuno di quegli appuntamenti clandestini consumati in agriturismi o alberghetti fuoriporta che coloravano la sua quotidianità scialba e inconsistente. Sino a quel fatidico giovedì in cui una sensazione strana, sgradevole si era impossessata di lei per il resto della giornata; facendole dapprima pensare di aver contratto uno di quei  virus capricciosi e passeggeri, capaci tuttavia di scombussolare, anche se per breve tempo, una vita senza scossoni, senza infamia e senza lode come la sua. Sentendosi soffocare l’aveva chiamato sul cellulare di servizio con un numero schermato, come da lui ampiamente raccomandatole, defilandosi per il giorno successivo con una scusa a cui lui non aveva replicato, accettando quel diniego piattamente, quasi impersonalmente; probabilmente per non destare sospetti nella persona che, dall’altro capo del telefono, lo fronteggiava. Senza percepire nulla del bivio che lei scientemente aveva deciso di intraprendere.

Le successive due settimane in cui non aveva incontrato il suo amante, in vacanza in montagna con moglie e prole al seguito, le avevano tuttavia dato modo di mettere a punto quell’idea nuova, singolare che l’aveva stupita per l’insospettabile forza che conteneva strappandola con fermezza a quel bozzolo soffocante che si era costruita attorno, prontamente aiutata dalla casualità che dal cappello a cilindro aveva d’improvviso estratto un’amica da poco in città desiderosa di un  appoggio temporaneo che potesse tramutarsi in punto di riferimento stabile.

Quella mattina Irene si era mentalmente ripetuta il discorsetto da propinare al suo titolare e approfittando di qualche minuto di relax che lui si era concesso per festeggiare una transazione conclusa in maniera particolarmente favorevole, gli aveva dato il preavviso ridicolmente breve di una settimana, facendogli andare di traverso quel vetrino freddo ordinato al Bar Ideal con così tanto entusiasmo. Con insolita determinazione gli aveva anche chiesto una parte di ciò che le spettava come liquidazione, forte di quei quattro anni di impiego diligente e scrupoloso, aumentando lo stupore dell’uomo che si era limitato a sgranare gli occhi, incapace di metabolizzare quell’insospettabile voltafaccia da parte di una persona  apparentemente innocua come lei. Convocandola il giorno successivo e chiedendole, tra una sigaretta e l’altra, cosa l’avesse indispettita a tal punto da spingerla a una risoluzione così radicale. Con un impercettibile sospiro e un sorriso che non arrivava al cuore la ragazza aveva replicato che la sua era una decisione dettata esclusivamente da difficoltà familiari, impelagandosi in spiegazioni frammentarie in cui aveva parlato di affari urgenti cui badare e della necessità di doversi a breve trasferire in altra città. Lui l’aveva ascoltata con sguardo meditabondo senza proferire parola, poi aveva estratto da un cassettino della scrivania un modulo dattiloscritto che lei aveva firmato senza leggere, a fiducia, prendendo la busta che le porgeva quasi con rammarico, con una fermezza che sentiva prossima al capolinea, senza controllare minimamente cosa contenesse.

Preparando il borsone, il quarto in quel sabato di chiaroscuri fatto di afa estiva inutilmente attenuata da un susseguirsi incessante di temporali, aveva elaborato il passo successivo. Mara aveva ascoltato in silenzio del suo licenziamento e della sua difficoltà presente di affrontare la spesa del subaffitto di quella stanzetta di dieci metri quadri in un condominio di periferia. Accettando con magnanimità di conservarle in una cantinola tutto ciò che lei non fosse riuscita a caricare nella sua utilitaria fino a quando lei non avesse trovato adeguata sistemazione in un altrove imprecisato di cui non aveva voluto sapere nulla. Aveva anche promesso discrezione assoluta sulla sua partenza, compatendola mentalmente per quanto le era in così poco tempo accaduto, e a quel punto Irene le aveva trascritto su un post-it il suo nuovo cellulare ringraziandola per tutto e assicurandole di chiamarla presto per farle avere sue notizie. Delineando di se stessa e della propria vita in quella mezzora molto di più di quanto in quattro anni di coabitazione non avesse fatto. Poi era partita.

Per andare dove non lo sapeva nemmeno lei. Certamente allontanarsi in fretta da una situazione che le aveva tolto serenità e vitalità, smagrendola e conferendole un’aria più patita del solito che le era diventata inaccettabile. Uscire dalla cinta d’asfalto di quella città di provincia le aprì i polmoni liberandola in parte dal peso di angoscia e di incertezza che le premeva sul cuore.

D’istinto decise di puntare verso la costa, verso il mare. Aveva voglia di respirare aria pulita di salsedine mista all’odore penetrante di ozono che le solleticava le narici, guidando blandita dal ticchettio rasserenante della pioggia sulla capote della sua macchinuccia e dal confortante ritmo dei tergicristalli in azione.

Quando arrivò in quella cittadina pulitissima dal nome antico di sibilla si accorse con stupore di avere fatto più strada del previsto incalzata dal temporale e da pensieri vorticosi che tuttavia si erano dipanati come il filo di una matassa prontamente districato da un’esperta tessitrice.

Scendendo dall’auto per sgranchirsi le gambe intorpidite fu assalita dal richiamo del mare infuriato e dall’odore dell’arenile bagnato a quell’ora deserto.

Tra l’insegna fluorescente dell’hotel che prometteva vacanze marine roboanti e quella, più modesta, di un bed and breakfast a poche decine di metri più in là scelse quest’ultimo, cenando, come spesso le capitava da bimba, con un cappuccino e un croissant. La stanza era piccola ma graziosa e tra i tetti degradanti di quel centro storico così compito, mostrava un piccolo scorcio di mare aperto, beneaugurante, appena illuminato dallo scintillio di un quarto di luna sbucato non si sa come dai nuvoloni dispersi dal vento. Si addormentò con semplicità, come oramai da tempo non le capitava, le braccia strette attorno al corpo smagrito e le persiane aperte sull’aria fresca e invitante della notte.

– Buon giorno.

La padrona del Mistral l’accolse con un sorriso e la condusse verso un terrazzino odoroso di bouganvillea e gerani in cui aveva apparecchiato per lei. Irene fece onore alla colazione mentre guardava con occhi impenetrabili verso il mare, certo e incredibilmente presente anche da quella nuova prospettiva.

Un gabbiano intraprendente svolazzò dalla pensilina che la sovrastava e lei si stupì di quell’audacia osservandone ammirata l’apertura delle ali e il volo sicuro a metà tra la libertà e la consapevolezza di dover tentare nuove strade, nuovi mari, alla ricerca del necessario per andare avanti con dignità.

– Per stasera cosa ha deciso? Pensa di trattenersi ancora?

Cincischiando distrattamente con un’unghia sul ricamo della tovaglietta della colazione Irene si riscosse e accennò a un sorriso, lo sguardo verso il cielo rimesso al bello, nella carezza di una brezza gradevole e sottile.

– Resto, le disse.

E, con la lievità di una nuvola trasportata da correnti d’aria propizie, si diresse verso il fulcro di quel paese antico che sapeva di nuovo, che sapeva di buono.

 

Lucia Guida

 

* “Il cielo resta sempre” ha partecipato al Premio Dialogare 2014

 

 

“Promenade sur la falaise, Pourville”, Claude Monet (1882)