Quest’estate 2016 ha avuto un esordio e continua per me a essere piuttosto particolare. Tra le tante priorità che affollano la mia vita mi capita spesso di ritagliarmi a fatica spazi fisici e temporali da dedicare a me stessa e alle cose che amo fare. Questo momento di stasi, però, non mi dispiace: è risaputo che dalla riflessione scaturiscono sovente idee e messe a punto utili e funzionali per l’immediato futuro.
La mia proposta di lettura per voi, oggi, è un estratto di ‘Romanzo Popolare’, opera di narrativa e mia ultima pubblicazione per Amarganta in cui descrivo una notte estiva vista e vissuta da prospettive diverse. Punti di vista, manco a dirlo, prevalentemente au feminin.
A presto
Lucia
Erano i primi di luglio e il caldo continuava a farsi sentire più del dovuto. Lidia era alle prese con gli esami di maturità che l’avrebbero impegnata fino a fine mese. Alessandro era in tournée in Spagna con alcuni musicisti del Conservatorio “Luisa D’Annunzio”. Si sentivano spesso, le loro erano telefonate brevi e tenere, ma sortivano lo stesso effetto di un boccone per un affamato, non era la stessa cosa che vedersi e sfiorarsi. Lidia contava i giorni che mancavano al suo rientro e cercava di ottimizzare il poco tempo libero a disposizione dedicandosi allo studio.
Teresa e Dario avevano accettato che si fosse innamorata, allineandosi con la stragrande maggioranza dei suoi coetanei. Ai 45 giri in vinile si erano affiancate registrazioni estemporanee di audiocassette di concerti di musica classica incentrate su assoli di piano. Così avevano invitato a pranzo Alessandro, che si era presentato in giacca e camicia, un mazzo di fiori e un sorriso tra il timido e l’imbarazzato. Complice la passione di Dario per l’opera lirica, la tensione si era smorzata e quella sorta di reciproca avanscoperta si era trasformata in una piacevole occasione di conoscenza. Teresa aveva spopolato col suo timballo, le sue celeberrime crostate e lo stufato di carni miste. Alessandro aveva avuto il permesso di portare a passeggio Lidia con la benedizione di tutti, fratello maggiore incluso, lasciando di sé un ricordo positivo e l’idea di replicare.
I ragazzi avevano cenato in un localino del centro e c’era stata pure una serenata, offerta da un amico della proprietaria che si era divertito a strimpellare un paio di canzoni in romanesco a beneficio dei clienti. A Lidia era sembrato di toccare il cielo con un dito e suo padre, vedendola rientrare così felice, non aveva infierito sul ritardo di lei.
Teresa aveva raccontato la novità a Maria, l’altra si era limitata ad ascoltarla con un sorriso a mezza bocca. Un’espressione di circostanza che non arrivava al cuore. Quel mancato coinvolgimento, da Teresa messo automaticamente in conto, aveva generato una sottile crepa tra di loro.
Lidia decise che per quella sera poteva bastare, chiudendo con uno scatto il manuale di letteratura italiana, richiamata alla finestra spalancata sulla sera dal suono melodioso di un ddu bbotte strimpellato da qualcuno in lontananza.
Tra le ombre del cortiletto le parve di scorgere un movimento rapido che la incuriosì. Spense la luce della lampada da tavolo per tenere lontane dalla sua stanza le zanzare e si affacciò dalla finestra. Seduta su una panchina c’era una ragazza che non le parve di riconoscere. Aveva capelli lunghi di colore chiaro, forse biondi o rossicci, a quella distanza non avrebbe potuto dirlo. Era vestita di bianco con una maglietta tirata sul seno florido, allungata su una gonna al ginocchio di colore più scuro. La figura era immobile e dava l’impressione di essere assorta in pensieri importanti, le braccia parallele al corpo come in stato di abbandono. Soltanto il movimento impercettibile di un piede, calzato da sandali col tacco, tradiva il suo nervosismo. Lidia ipotizzò che potesse aspettare qualcuno.
«Lidie’, ma che ci stai a fare al buio? »
Sua madre aveva aperto la porta della stanza cercando di mettere a fuoco, nella penombra, la sagoma di sua figlia stagliata contro il blu intenso della notte.
Lidia si girò di scatto, colta in flagrante.
«Sono alla finestra.»
«E brava, così poi domani ti lamenti delle zanzare e fai storie per alzarti dal letto… Ma tirare la zanzariera proprio non ti va?»
Teresa si avvicinò brontolando sulla totale mancanza di senso pratico della ragazza. A cosa era servito che il padre si fosse ammazzato di lavoro per installare da sé le protezioni, lui che falegname non era, se poi c’era chi se ne fregava?
Lidia si staccò malvolentieri dal davanzale, permettendo a sua madre di rimediare alla sua trascuratezza con pochi gesti mirati. Attraverso le maglie strette della tela fitta non c’era più gusto a sbirciare di fuori. Decise, quindi, di dedicarsi ad altro.
«C’è rimasto un po’ di gelato, almeno?»
«Se ti sbrighi; non è che regga troppo nella ghiacciaia e tuo fratello l’ha riportato a casa già da un’ora.»
Teresa si lasciò precedere in corridoio mentre in cortile c’era un avvicendamento discreto di persone richiamate dalla sensazione illusoria di godere di un po’ di fresco grazie all’umidità emanata dai pini e dalle acacie disseminati lungo il suo perimetro. Giselda, tuttavia, non pareva esserne disturbata; aveva altro per la testa. Aspettava Matteo. Prima o poi sarebbe dovuto rientrare a casa. Dai Colli era scesa giù con uno degli ultimi autobus urbani ma contava di chiedergli di riaccompagnarla.
In fondo la sua richiesta era un mero atto di gentilezza da cui nessun cristiano si sarebbe potuto tirare indietro.
Cercò di non fare caso a due donne di mezza età che le erano passate davanti subissandola di occhiate indagatrici. Ripensò con desolazione al fatto che oramai di Matteo non aveva che notizie frammentarie provenienti dai clienti dell’osteria nella quale continuava a lavorare con sempre maggiore fatica. Era stata anche privata dell’aiuto di Onorina, ormai nonna a tempo pieno dopo la nascita del suo primo nipotino.
Matteo non aveva più interesse a farsi rivedere.
Non sapeva se la cosa le procurava più rabbia o dolore.
Forse le due sensazioni spiacevoli erano divise a metà e non aveva senso stabilire quale prevalesse sull’altra. Aveva sempre saputo che da lui avrebbe ottenuto poco. Matteo non era un uomo capace di sacrificarsi per il prossimo, non lo era mai stato. Eppure lei l’aveva accettato così com’era per ciò che lui aveva mostrato di essere, un cumulo di difetti e nient’altro.
Aveva tenuto il bambino arrivato per caso.
Non aveva avuto la forza o il coraggio di disfarsene come Onorina, con molta enfasi, le aveva suggerito, allungandole l’indirizzo di una sua conoscente molto brava e discreta in queste circostanze.
«Non te lo puoi permettere, un figlio senza sposo» le aveva detto.
Giselda aveva calato la testa, preso il pezzo di carta in cui la donna aveva scarabocchiato qualcosa con la grafia incerta, tipica di chi aveva fatto a mala pena le scuole elementari, come lei. Era andata via, finendo in solitudine quella serata così dolce nel grigiore di casa. Suo padre era andato al paese per qualche giorno, ospite di un loro parente per respirare un po’ di aria buona, una mano santa per i suoi acciacchi. Si era rallegrata di quell’assenza, fingere con lui che tutto andasse bene era sempre più difficile.
Un’andatura conosciuta le fece sollevare la testa. Poggiando la borsetta di lato sulla panchina, scattò in piedi, cercando di attrarre l’attenzione di Matteo. In fondo era lì per incontrarlo e parlargli.
«Matteo…»
L’uomo trasalì, girandosi verso l’ombra a pochi passi da lui. Una smorfia di fastidio sul volto.
«Giselda, ma che ci fai qui!»
Giselda lo guardò in volto, inspirando a fondo, cercando di radunare la dignità e il coraggio che le rimanevano.
«Ti devo parlare» mosse incerta qualche passo verso di lui.
Matteo lanciò uno sguardo rapido verso la finestra della cucina di casa sua notando che non era illuminata, segno che i suoi erano di sicuro seduti a godersi un po’ di fresco sul balconcino della camera da letto che affacciava dall’altra parte dell’edificio. L’afferrò per un braccio e la trascinò con rudezza verso il varco che portava alla via principale, illuminata da sporadici lampioni e poco frequentata. Notò con cinismo come lei non avesse opposto nessuna resistenza a quelle cattive maniere. Nell’attimo in cui raggiunsero una panchina più defilata delle altre, allentò la presa e lei ne approfittò per sedersi, sentendo che le mancavano le forze. Lo scrutò di nuovo, piantandogli addosso un paio di occhi pieni di sofferenza.
Poi con apparente determinazione lo apostrofò:
«Si può sapere che t’ho fatto? Non ti fai più vedere, telefono e a mala pena rispondi. Una persona non si tratta così.
Tu non puoi trattarmi così.»
Matteo girò di lato il viso, evitando di ricambiare il suo sguardo, puntando alla stradina secondaria che portava verso i campi e al canneto che gli era familiare.
Decise di giocare duro, tranciando senza compassione ogni maldestro tentativo di riappacificazione dell’altra. I tagli netti erano i migliori, sempre. Per lui Giselda era stato un intermezzo, neanche troppo felice, in una parentesi temporale di vita vissuta in modo piatto, incolore.
«Ma che ti sei messa in testa? Siamo stati insieme per un po’ e vabbè. Ma le cose sono cambiate. E tu non mi piaci più. Non come prima, almeno.»
Giselda alzò la testa come se qualcuno l’avesse schiaffeggiata.
Poi raccolse ciò che era rimasto del suo amor proprio e tentò di replicare con tutto il decoro che possedeva per mascherare quanto quel parlare nudo e crudo l’avesse annientata.
«Perché prima ti piacevo, vero? Come ti piaceva il mio letto, le mie cucinette, le domeniche sera e tutte le altre cose e gli sfizi che adesso ti togli con qualcun’altra. Sorpreso, vero? So tutto. La moglie di Torresi, giusto? Quello dell’azienda di autotrasporti a Tiburtina. Ti fa i regali costosi e ti porta sulla sua macchina sportiva in giro ppe’ fratte.»
Matteo la squadrò con apparente indifferenza.
«E se pure fosse, a te che t’importa?»
«Te la sei scelta ricca, bravo, complimenti. Ora cenette di pesce al ristorante pagate da lei e profumi costosi.»
Era troppo. Mascherando il disagio che l’aveva invaso suo malgrado, l’afferrò di nuovo per le braccia scuotendola con forza per farla smettere di parlare. Era un bastardo e lo sapeva, ma sentirselo rinfacciare con tanta foga da una tanto arrendevole, non lo sopportava. La sua inadeguatezza aumentò a dismisura senza, per contro, intenerirlo di un grammo.
Continuò a scuoterla fino a quando non la sentì cedere, allora la lasciò di botto mentre lei si afflosciava come la bambola di pezza dalle gambe lunghissime e sottili che teneva al centro del suo lettino ai Colli. Un involucro vuoto privato del suo contenuto.
«Qui non ci devi venire più, li si capite o no?»
Era una minaccia più che un ammonimento.*
*in Lucia Guida, (2016), Romanzo Popolare, Rieti, Amarganta

foto di Robert Doisneau