La Bellezza non svanirà

Arriva un momento nella vita in cui siamo costretti a fare i conti con ciò che siamo anche grazie a ciò che abbiamo, sino a quell’istante, fatto. Arrivando a sfrondare, per necessità o virtù, la nostra esistenza di tutti quegli orpelli che l’avevano appesantita impedendoci di volare.

“La Bellezza non svanirà” è un racconto breve scritto da me in occasione della I Notte Bianca del Museo  delle Lettere d’Amore di Torrevecchia Teatina (CH), evento patrocinato dal predetto comune e dalla casa editrice Noubs, celebrata venerdì 25 ottobre 2013 nel Palazzo Ducale dell’omonima cittadina. Narra i pensieri e le riflessioni fugaci di una donna colpita da una malattia invalidante che ne ha drasticamente ridotta l’autonomia. Nella bolla senza tempo che l’ha racchiusa non c’è più posto per il superfluo; resta soltanto la grande ricchezza di vivere una dimensione temporale rinnovata e arricchita di piccoli gesti e immagini. Significativa e altrettanto pregnante perché avvolta da una quotidianità  a poco a poco ri-conquistata a caro prezzo, carpendo con tenacia l’attimo.

Buona lettura

La Bellezza non svanirà

 

To see a World in a grain of sand
And a Heaven in a wild flower
Hold Infinity in the palm of your hand
And Eternity in an hour

Scorgere il mondo intero in un granello di sabbia

E il Paradiso in un fiore selvaggio

Tenere nel palmo della mano l’Infinito

E l’Eternità in un’ora

William Blake, Auguries of Innocence

E’ una bella giornata di primavera, la prima di quest’anno. Azzurro il cielo tra mare all’orizzonte e monti ancora candidi di neve alla mia destra. Una rondine  (pensavo non arrivassero più!) e una cornacchia dal piumaggio nero, lucente si contendono il tetto della casa che ho di fronte. Stamattina mi è sembrato di udire anche il richiamo rauco di un gabbiano e ho ricordato lo scintillio del mare, l’odore del salmastro e la dolcezza sommessa della risacca: io da bambina, secchiello in mano a ricercare tesori, e poi ragazza cresciuta e madre seduta a riva su un telo morbido a vigilare sui miei beni preziosi, i miei figli piccini. Indaffarati a riportarmi pezzi di gioielleria barbarica marina come io un tempo con mia madre: conchiglie, ciottoli, pezzi di vetro trasparente levigati dalle onde.

I giorni dell’ora posseggono, per me, una dolcezza sommessa, discreta e appagante al medesimo istante. Ora so apprezzare grata le volute di calore che si sprigionano pian piano verso l’alto dalla mia tisana ai frutti rossi, poggiata per me da mani invisibili su un tavolo al centro di quest’isola galleggiante di serenità che è il mio attimo fuggente. Nell’attesa che si stemperi un po’ prima che io possa sorseggiarla piano.

Il tempo del mio adesso mi avvolge lentamente prima di lasciarmi al mio destino, per niente indispettito dalla mia arrendevolezza, per dirigersi altrove: alla volta di chi lo farà fruttare diversamente, se lo litigherà, lo rincorrerà, senza avere la possibilità di afferrarne un istante finendo col maledirlo, forse, con astio.

Nel luogo in cui io e la mia mente siamo ora non c’è bisogno di algoritmi cronologici scanditi con rigore e regolarità di cui noi non sentiamo affatto la mancanza.

Ora posso accarezzare con sguardo rapito o distratto la morbidezza sinuosa di un fiore senza che nessuno mi osservi con riprovazione; ricordando la pelle morbida del mio primo e unico amore e il suo profumo discreto di maschia vigoria, unito a quello femminile della mia essenza di donna, compiuti in un abbraccio senza eguali prima, durante e dopo l’amore.

Ci sono frammenti di vita vissuta che non si dimenticano, soprattutto se è il cuore a riportarli a galla, sconfiggendo a tavolino la proterva fallacia di una memoria deplorevolmente inefficace, traditrice.

Ed è sempre il cuore, battito dopo battito, a cancellare pietosamente sofferenze e incomprensioni antiche, trasformando in oro lucente ciò che della nostra umanità si ostina a sopravvivere. Similmente al dorso di una foglia in autunno, già orlata di giallo sfumato nel marrone, eppure così rigogliosa in quelle venature centrali di un verde tenue e ancora caparbio. Un verde che grida a gran voce “Speranza!”, e che agogna a essere ascoltato.

Guardare a particolari minuti di rara bellezza contenuti in una quotidianità dilatata ed evanescente è pretendere, con tutte le forze che mi restano, che un po’ di eternità possa resistere a questa malattia che, passo dopo passo, mi condanna a perdere identità e unicità di persona, allontanandomi dall’affetto di coloro che hanno contato nella mia vita e che per me sono, adesso, simili a sagome indistinte in una nebbia senza fine, senza ritorno.

Serendipità, per me, oggi, è ritrovarmi in una stanza luminosa, seduta nella mia poltrona preferita. Trattenendo ben stretti nel palmo della mano pochi e leggeri granelli di sabbia prima che la brezza incostante di questo tempo, ora di tiepido autunno, domani d’inverno rapace, li liberi e li porti con sé via lontano.

Pensando che la Bellezza non potrà mai svanire. Se solo uno sguardo e il gesto di una mano stanca, ancorati ostinatamente e sorprendentemente alla vita, riusciranno a trattenerne un briciolo infinitesimale, luminoso e prezioso.

Lucia Guida

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photo by Andrea Vaccari

Un dì di festa

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“Chop Suey”, E. Hopper (1929)

La vita di provincia è sempre complessa. Non puoi nasconderti in un anonimato comodo e complice e capita assai spesso che di te si sappia ogni cosa. L’esistenza di ciascuno diventa, quindi, una sorta di telaio in cui qualcuno ha provveduto parzialmente a tessere un ordito senza limitazioni di sorta. Finendo col lasciare più o meno inconsapevolmente troppo spazio ad altri per completarne la trama.

La mia proposta di lettura per voi è, oggi, il racconto breve “Un dì di festa”, parte della mia silloge “Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile” per i tipi della Nulla Die di Piazza Armerina (EN). La raccolta, in ristampa già dopo il primo mese di vita, è stata pubblicata all’inizio del 2012.

“Un dì di festa” è la storia pacata e molto verosimile di Tina ed Erminia, amiche, in un paese del Sud del secondo dopoguerra alle prese con la celebrazione della festa patronale.

Buona lettura

Un dì di festa*

 

… E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate

Del mio dolore…

 

G. Leopardi, Alla Luna in Canti

 

 

 

L’essenza della sua giornata era tutta lì, in quella tazzina di caffè forte con poco zucchero, centellinata pian piano nel tinello schermato dalle imposte socchiuse. Avvolta nella vestaglietta di seta a rosolacci rossi e rosa morbidamente annodata in vita, Tina se la gustò sino all’ultimo goccio mescolato a una punta di zucchero rimasto e a pochi granelli di polvere scura sfuggiti al filtro della caffettiera napoletana. Troppo esigui per leggervi il futuro come sua nonna era solita fare. Pensò alla giornata senza di lui che l’attendeva e a tutte le altre giornate a venire simili a questa che si sarebbero inevitabilmente avvicendate. Quella settimana era stata la donna del sabato, ma in passato le era occorso di essere donna del lunedì o di un qualsiasi altro giorno feriale. Raramente festivo. Lui non avrebbe potuto. Aveva moglie e figli con cui celebrare ogni ricorrenza e festa comandata del calendario, a meno che non si trattasse di un urgente viaggio di affari che lo impegnava inderogabilmente dalla domenica sera. Ma capitava molto di rado. Il campanile della piazza principale del paese suonò otto rintocchi e lei si riscosse. Afferrò le due tazzine e le poggiò nell’acquaio in cucina. Poi andò in camera per abbigliarsi per recarsi al lavoro.

— Signora Tina, buongiorno, la salutò con deferenza Matteo il barbiere, in maniche di camicia e sull’uscio in pausa dopo il primo taglio e frizione della giornata.

— Buongiorno, Matteo, gli sorrise lei, la veletta appena abbassata nonostante l’aria calda e ferma già a quell’ora del mattino. E passò avanti, guadagnandosi rapidamente la strada tra le bancarelle del mercatino delle erbe e le ali di venditori estemporanei, senza fermarsi ai loro richiami. Aveva già quello che le bastava, per quel giorno non intendeva comperare nulla. Le imposte della merceria erano già aperte, segnale inequivocabile che Annina era arrivata e aveva aperto il negozio alla solita ora.

— Signora buongiorno.

— Buongiorno Annina … La ragazza continuò a spolverare diligentemente il bancone di legno chiaro su cui erano poste ben in fila scatole e scatoline di trine e gale, insistendo con foga per cancellare le ultime impronte lasciate dal giorno prima. A lei toccava ricevere gli acquirenti, inventariare le merci e ogni sera pulire il negozio. Quel venerdì, però, aveva terminato prima.

Pietro, il suo fidanzato, ora in servizio di leva, aveva avuto una licenza breve per tornare al paese per la festa patronale e lei aveva domandato il permesso alla signora di poterlo andare a prendere alla stazione.

— Pietro sta bene?, s’informò Tina. L’altra sorrise e disse che sì, lui stava bene ed era contento di essere giunto quasi a fine naia.

Tra poco meno di due mesi si sarebbe congedato e in casa da lei avrebbero potuto concretamente parlare di nozze. Già si vedeva, il lungo abito bianco di raso e un velo spropositato che finiva al termine della navata centrale della chiesa madre, al braccio di uno zio materno perché lei era orfana di padre e non aveva fratelli maschi.

Uno scampanellio deciso segnò l’ingresso della prima cliente e Annina storse il naso, riconoscendola. Era la signora Irma, moglie del farmacista. Avrebbe preteso l’impossibile, rivoluzionato il negozio e alla fine se ne sarebbe andata a mani vuote senza comprare niente. Sospirò rassegnata.

— Buongiorno, signora Irma, la accolse Tina ricevendo a mo’ di saluto un cenno del capo appena ingentilito da una smorfia che aveva ben poco di amabile. L’altra la studiò da capo a piedi, notando con estremo disappunto come in lei non vi fosse niente di sbagliato o eccessivo.

— Avrei bisogno di qualcosa per ornare la falda di questo cappellino …, esordì finalmente, esaminando con sguardo critico i barattoli di vetro colmi di fiori artificiali e ordinati nella scaffalatura con gusto impeccabile. Tina fece un segno impercettibile ad Annina, che aveva fatto il gesto di avanzare verso di lei. Ci avrebbe pensato lei a servire la signora e fu quanto fece. Alla ragazza non restò che riavvolgere con cura eccessiva della passamaneria che era stata momentaneamente accantonata in una valigetta di cartone sotto il bancone, sbirciando in contemporanea il via vai dei passanti, richiamati in strada dal bel sole di maggio. Nel frattempo erano entrate altre due clienti, madre e figlia, in cerca di certe applicazioni di pizzo con cui ornare il davantino di un abito. Annina le servì con competenza e gentilezza, compatendo la sua padrona ancora alle prese con quella donna sempre così indecisa. Poi fu un susseguirsi di persone arrivate alla spicciolata una dietro l’altra per gli ultimi acquisti per quel giorno speciale, da tutti pregustato e atteso con gioia. In cui ciascuno dei paesani avrebbe mostrato il meglio di sé rispolverando l’abito buono per lo struscio sul corso o per ascoltare ai piedi del palchetto in piazza la banda di un qualche paese limitrofo giunta appositamente per l’occasione. Oppure passeggiando mollemente per il viale alberato sfilando davanti ai banchetti della fiera pieni di merci di ogni tipo. A ora di pranzo entrambe erano sfinite, ma decisero comunque di riporre con cura ciò che non era stato possibile conservare al momento, prima di serrare definitivamente le imposte. Quel pomeriggio niente vendita. C’era la Madonna in processione attorniata da una miriade di santi e angeli, evento al quale non si poteva mancare. Annina prefigurò brevemente la serata che si sarebbe concessa al braccio del suo Pietro e che sarebbe culminata negli spettacolari e consueti fuochi d’artificio a notte inoltrata a ridosso della campagna. Anche lei si sarebbe pavoneggiata nel suo abitino a giacca color celeste polvere, borsetta e scarpine di capretto bianco. A quella toeletta aveva destinato i risparmi di qualche mese, aiutata da sua madre, abile sarta, col vantaggio di poter acquistare a buon prezzo stoffa e accessori nel negozio in cui lavorava.

— A lunedì, salutò alla fine, dopo aver riposto l’ultimo rotolo di gros-grain nel cassetto, chiedendosi fugacemente come la sua datrice avrebbe trascorso quel breve intermezzo di festa.

Ma fu un attimo solo e la ragazza chiuse dietro di sé la vetrina con lievità, allontanandosi al fianco del suo Pietro, in paziente attesa, una sigaretta dopo l’altra, all’angolo della via. Tina li accompagnò con uno sguardo comprensivo e indulgente, senza la minima ombra di livore. Avevano tutte le carte in regola per essere felici. Erano giovani, ansiosi di vivere e pieni di speranza. Perché la vita non avrebbe dovuto accontentarli?

Di ritorno a casa, si fermò a bussare al portoncino di Erminia, la sua amica più cara. Una delle poche che non l’aveva giudicata per le sue scelte di vita più recenti in quel paesino di provincia in cui tutti amavano a dismisura passare minuziosamente al setaccio la vita altrui sorvolando per contro con troppa leggerezza sulle proprie debolezze.

— Tina, accomodati.

L’altra si affrettò per la scalinata ripida e scomoda che portava al primo piano e a un disimpegno su cui davano tinello, cucina e uno studiolo in cui Erminia preparava le sue lezioni. Era professoressa di lettere e aveva studiato all’università, cosa ragguardevole e degna di nota. Non si era mai sposata. Qualcuno insinuava che fosse rimasta legata al ricordo di un amore di gioventù. Si era tanto parlato di quel fidanzamento in semi clandestinità col medico condotto, osteggiato dalla famiglia di lui. Alla fine il dottorino aveva preferito a lei una ragazza di famiglia facoltosa che aveva assolto con premura e coscienza ai suoi doveri di moglie portando una dote cospicua e dandogli cinque figli. Le due amiche presero accordi per la serata. Si sarebbero incontrate dopo la consueta siesta pomeridiana. Il caldo e le rondini non avevano mancato all’appuntamento annuale caratterizzando con la loro presenza quella ricorrenza che per tutti era celebrazione religiosa e rito propiziatorio per la bella stagione oramai imminente. Tina si alzò dalla poltroncina capitonné e voltandosi le annunciò con noncuranza che lui era ripartito. Quindi si diresse verso le scale, reggendosi fermamente al corrimano di ferro per guadagnare velocemente l’uscita. Erminia non commentò. Qualsiasi cosa avesse aggiunto alla precisazione dell’altra sarebbe stata inutile. Inutile e dannosa, aggiunse. Si accese con mano ferma una sigaretta e ne aspirò avidamente l’aroma. Tina era una delle tante vedove di guerra che delle gioie del matrimonio avevano conosciuto pochissimo. Lui era partito per il fronte due giorni dopo le nozze, celebrate in grande fretta e sobrietà, e non era più tornato. Lei lo aveva atteso a lungo non rassegnandosi a quella fine precoce che l’aveva lasciata sola al mondo. Per un lungo periodo si era trascinata tra le macerie della sua vita, rifiutando una qualsiasi forma di ricostruzione, semplicemente lasciandosi vivere. Sino a quando non era comparso lui, aitante commesso viaggiatore, che non le aveva promesso niente (e del resto come avrebbe potuto?) ma che l’aveva riportata in superficie. A Tina tanto era bastato.

Naturalmente c’era chi aveva pontificato sulla sconvenienza di quell’amicizia ”indecente” e le comari del paese l’avevano senza appello condannata, celando sotto i loro sguardi impassibili giudizi morali irriferibili e severissimi. Ciò nonostante Tina aveva continuato a procedere a fronte alta da combattente nata, schivando tanta palese disapprovazione e commenti ingenerosi con abilità e leggerezza ostentate. Erminia sentì dentro di sé un moto che era insieme amore e odio per quel paese natio così abbarbicato ai pregiudizi da preferire la pura apparenza alla reale sostanza nelle cose. ”Cambierà mai qualcosa?”, si chiese dubbiosa e con un po’ di amarezza, sbriciolando con decisione nel posacenere quello che restava di quella cicca fumata con rabbia e perdendosi in un ricordo lontano.

La musica era piacevole e invitante da ascoltare tra i tavolinetti del caffè di piazza occupati dalla gente che contava. C’erano anche loro a gustare una fetta di cassata rimirando divertite il passeggio variegato che si offriva ai loro occhi. Più di un concittadino ammirava estasiato le luminarie allestite dall’amministrazione comunale nel centro urbano e lungo i viali alberati che portavano alla stazione e ai giardini pubblici. Ogni cosa di quella serata era il riflesso studiato di una grandiosità che aveva dell’incredibile dopo il lungo periodo di guerra e privazioni che li aveva flagellati. C’era un’autentica voglia di rinascita scaramanticamente esibita da quella parvenza di lusso e benessere mostrati quasi con sfrontatezza. Da lontano il farmacista, moglie e prole al seguito, fece loro un cenno di saluto. Tina, ricambiando educatamente, si attardò a considerare l’abito rigoroso di seta dai toni pacati indossato dalla donna a malapena stemperato dalla paglietta con il suo tralcio di glicine pastello, indugiando anche sui due figli, ragazza e ragazzo, palesemente a disagio negli abiti nuovi. Erminia li guardò con indulgenza. I gemelli, entrambi in classe con lei, erano bravi alunni. Tuttavia stette al gioco e continuò a tratteggiare con leggerezza con l’amica un paesano o l’altro suscitando spesso la sua ilarità. La voce le si affievolì in gola soltanto quando vide sopraggiungere da lontano, portati verso di loro da una fiumana vociante e briosa di gente, il suo amore di un tempo, ora marito e padre integerrimo, accompagnato dalla moglie e dai figli. Per qualche istante distolse lo sguardo, sperando che l’incedere sostenuto della folla li portasse lontano da lei, ma invano. Per tutti decise un venditore ambulante di palloncini, cui la famigliola si era rivolta per accontentare i figli minori, fermandosi a pochi passi dal loro tavolino. Impossibile far finta di niente. Per qualche frazione di secondo lei poté scrutare da vicino, ricambiata, quel bimbo, loro ultimogenito, che le sorrideva ignaro, il palloncino rosso legato a un polso, pensando al viso di quel figlio che pure per pochi mesi aveva anch’ella portato in grembo: a come sarebbe stato a quell’età, al colore che avrebbero avuto i suoi occhi, scuri come quelli del piccino che aveva di fronte o forse castani come i suoi. Con struggimento rinnovò quell’antico dolore che l’accompagnava ancora, macerandola senza tregua, e che le aveva impedito di pensare a un amore nuovo e a una nuova vita da far germogliare e sbocciare dentro di sé.

All’improvviso un colpo lontano ristabilì equilibrio facendola trasalire. Era il segnale convenuto di inizio dei fuochi. La moltitudine febbrilmente invertì la propria direzione, come un ordinato sciame di api che con diligenza cerca di seguire la propria regina, puntando velocemente verso quel richiamo e spopolando le vie cittadine, fino a poco prima brulicanti. Lei e Tina indugiarono lì impigrite a sbirciarne dalla piazza soltanto il riflesso variopinto e multicolore nel cielo oramai di velluto scuro, cullate dalla sinfonia di un noto melodramma, brano finale della serata, volenterosamente suonato dai musicisti per i pochi ascoltatori rimasti. Il loro applauso garbato si confuse con il fragore prepotente dei botti e loro si affrettarono con gli ultimi avventori a lasciare i tavolini al lavoro di riordino del cameriere in farfallino con i capelli impomatati di brillantina, ben felice di mettere la parola fine al quel faticosissimo turno di lavoro.

— Ho sempre amato la Tosca, esordì Tina, mentre i lastroni di pietra locale della stradina che le portava verso casa rimbombavano dei loro passi lenti. Erminia le sorrise e si accese l’ultima sigaretta, fumandola con la solita bramosia. Era stato uno strano sabato, pensò. ”E la domenica non sarebbe stata da meno”, aggiunse mentalmente, gettando in terra quello che rimaneva del mozzicone.

— Mi chiedevo, …

— Cosa, volle sapere Erminia.

— Se alla fine valga davvero la pena morire per amore, buttò lì Tina.

Erano giunte al portoncino dell’altra, già pronta a inserire nella toppa la pesante chiave di ferro brunito. Erminia si voltò pensosa, la mano a mezz’aria e la guardò. Sapeva che l’amica aveva sofferto e che la situazione attuale, apparentemente vissuta con nonchalance, era in realtà per lei fonte di profonda insoddisfazione. Scrollò le spalle, sentendosi all’improvviso stanchissima.

— Non saprei, Tina, temporeggiò. Domani passo a prenderti io per la funzione solenne se vuoi, propose poi con un mezzo sorriso. L’amica fece di sì col capo e le augurò piano la buonanotte prima di andar via.

Erminia salì adagio le scale, una rampa dopo l’altra, sino a raggiungere il secondo piano della sua abitazione con le tre stanze da letto vuote e perfettamente in ordine ed entrò nella sua, lasciando spenta la lampada sul comodino. Con antica abitudine tra le fessure delle persiane accostate sbirciò per strada, intravvedendo la sagoma di una coppia di innamorati che si baciavano con foga, protetti da un lampione provvidenzialmente spento prima che altra gente sopraggiunta d’improvviso li mettesse in fuga. Erminia chiuse le imposte e accese finalmente il lume, lasciandosi cadere seduta sul letto e perdendosi nella contemplazione silenziosa di una foto di diversi anni prima, mentre l’odore pregno di aria umida di quell’estate precoce e già così vicina si mescolava al profumo dei gerani rossi in prorompente fioritura sul suo balconcino, avviluppandola. La scuola avrebbe chiuso con i lavori di mietitura e trebbiatura per riaprirsi, come sempre, al profumo intenso del mosto conservato nei tini delle cantine interrate e fresche. Prese un libro di poesie poggiato di lato sul comodino apprestandosi a leggerne qualche pagina. L’avrebbe rasserenata con dolcezza, conciliandola con garbo con quello che del mondo a volte le era difficile accettare.

Tina sedette sul divanetto della toeletta che le rimandò la sua immagine sottile fasciata da una camicia da notte leggera. Sciogliendosi la crocchia dei capelli biondo scuro iniziò a spazzolarli con lentezza, colpo dopo colpo, con andamento ritmico. Un insieme di macchie colorate vistosamente attrasse la sua attenzione. Su una delle due poltroncine ai piedi del grande letto matrimoniale giaceva la vestaglietta della mattina, abbandonata in tutta fretta. Lei si alzò e la mise su una stampella che infilò nel fondo dell’armadio chiudendoselo in fretta alle spalle. Poi si appoggiò pensosa al mobile.

Lunedì mattina avrebbe di sicuro ricevuto la solita chiamata interurbana, avvisata dal fattorino del centralino telefonico. Questa volta, però, sentiva di dover trovare una scusa per non accettarla. Non aveva più voglia di continuare per quella che era diventata una salita impervia. Non traeva più gioia da quella passioncella che l’aveva restituita al mondo ma a un prezzo che adesso le pareva davvero esoso da pagare. Dalla cassapanca tirò fuori il suo copriletto più bello di seta di San Leucio, quello che aveva spiegato sul letto di sposa per la sua prima notte di nozze. Affondandovi il viso ne respirò l’odore di spigo tra cui anni addietro l’aveva riposto. Allora ce l’aveva col mondo intero e con quel Dio impietoso che l’aveva privata del suo piccolo microcosmo senza un apparente perché. Desiderò di lasciarlo l’indomani sventolare dal balcone come più non faceva, secondo un’antica consuetudine delle donne del suo paese, per omaggiare quella Madonna bizantina nera con Bambino in visita per le viuzze del centro tra frotte di fedeli adoranti. Terminando la sua tisana di biancospino si lasciò scivolare tra le lenzuola, scrutando serena l’oscurità familiare che l’avvolgeva da cui avrebbe forse, quella notte, tratto maggiore conforto.

In strada poco lontano un cane abbaiò alla luna piena e luminosissima, accucciato ai piedi del suo padrone, un vecchio contadino che stentando nel prendere sonno scrutava, sulla soglia del suo sottano, il cielo notturno e limpido pensando a quella giornata di lavoro che nessuno avrebbe intrapreso, offerta ”per devozione” a Maria Vergine, perché portasse acqua nei campi e un po’ di prosperità per tutti. E intanto sospirava con rassegnazione e con speranza. Il mondo andava sempre come doveva andare e tutti loro erano poveri cristiani in balia dei suoi capricci, come la terra dei campi soggetta alle tante stravaganze e intemperanze della natura. Ma il grano avrebbe finito con lo spuntare come sempre, lo sapeva. Ed era quella, forse, l’unica cosa che contava davvero.

Lucia Guida

* “Un dì di festa” in  Guida, L. (2012) Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile, Piazza Armerina (EN), Nulla Die

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