La stanza della memoria

Non è facile parlare di femminicidio senza rischiare di cadere nella retorica o, peggio, di parlarne in maniera scontata e poco incisiva. In questo racconto breve, scritto qualche tempo fa per un reading, ho cercato di calarmi nei panni di una donna vittima dell’ossessione amorosa del proprio partner. Dandole voce per poterle far raccontare con voce postuma “da donna a donna” ma anche “da donna a uomo”  lo strazio di un amore femminile tradito, avvilito e annientato da parte di un uomo che con altrettanto amore e rispetto non è stato capace di ricambiare.

Buona lettura e a presto

 

La stanza della memoria

 

Sul comò di legno bianco laccato c’è ancora una cornice portafoto.

Nella foto che racchiude ci siamo io e te, capelli spettinati dal vento e sorrisi al cielo, il mondo intero stretto nel pugno di una mano in due, felici e irridenti. C’è un velo di polvere sottile e persistente sulla cornice dorata in stile veneziano che nessuno ha avuto il coraggio di toccare. Ciononostante, tutto in questa camera dai toni chiari, volutamente rilassanti, ha conservato la fragranza di un tempo.

Il letto dalla testata in ferro battuto decorato con volute e arabeschi sapienti, il comò sovraccarico dei miei gioielli etnici e di un mazzolino di rose secche lasciate appassire lentamente durante il tempo di un’estate mite, indulgente. Ricordi? Me le avevi comprate da un fioraio ambulante che te le aveva legate con un nastro rosso lucente, contro la sfortuna. Un nastro avvolgente come la passione che allora ci univa. C’è anche il tuo dopobarba, disperso tra le mille cose di poca e grande preziosità della mia quotidianità femminile che attorniano questo ritratto così evocativo di un giorno di sereno tra di noi che pure c’è stato: un’immagine unica, bella, radiosa, spettacolare.

“Siamo una bella coppia”, quante volte me l’avrai ripetuto? Non me lo ricordo più. So, però, per certo che all’epoca ci credevo davvero.

Sulla toeletta di legno scuro intarsiato troneggia una lampada dalla base di porcellana chiara con un’impercettibile fessura sul lato posteriore, nascosta all’occhio dei più. Deve quella crepa a un tuo atto di intemperanza, di cui a suo tempo mi hai prontamente chiesto scusa con un sorriso pentito, offrendoti di ripararla. Di comprarne addirittura un’altra.

Io ti ho celato il mio sguardo lucido e ho fatto finta, quel giorno, di osservare, attraverso le tende avorio della portafinestra, la collina e il biancore immacolato delle montagne antiche che tanti nostri risvegli hanno celebrato e salutato. “No”, ho, poi, trovato la forza di risponderti, nell’attimo in cui ho ritrovato un filo di voce. “Non occorre, vedrai che si potrà aggiustare”.

E, giorno dopo giorno, mettendoci tutto l’impegno di cui sono stata capace ci ho lavorato con amore, con speranza, incaponita com’ero a riportarla al suo splendore originario: quello dei nostri momenti migliori in cui felici, innamorati, frugavamo dalla prima all’ultima bancarella dei mercatini di paese alla ricerca di un oggetto qualsiasi che potesse suggellare i nostri primi attimi d’infinito insieme.

La poltroncina in stile è ancora nell’angolo in cui io l’avevo collocata, impregnata dell’odore maschile del tuo corpo sprigionato dai vestiti che eri solito poggiarvi. Le prime volte che facevamo l’amore non occorreva neppure che tu li sistemassi lì: i miei abiti, la tua camicia e il tuo maglioncino finivano frettolosamente in terra e nessuno di noi si dava peso di raccoglierli per lungo tempo. A coprirci bastavano il mio desiderio di te e il tuo di me.

Se spalanco le ante del nostro armadio riesco a percepire ancora la fragranza, sottile e persistente, della mia essenza di donna unita a quella tua, di uomo,  nei cassetti, negli scomparti e nei ripiani ora desolatamente vuoti. La nostra vita insieme mi ritorna in mente col suo ritmo lento e pacato iniziale; furioso e tumultuoso, inspiegabilmente frenetico e inumano al suo epilogo. Una fine impietosa, inusitata, brutalmente violenta, che qualcuno ha stentato a credere, leggendo di noi sulla pagina di cronaca nera di un quotidiano locale.

E’ incredibile notare come oggi i muri di questa camera sospesa nel tempo e nello spazio, luogo privilegiato dei nostri pensieri migliori, siano immacolati e perfetti come una volta.

Niente pare averli scalfiti o insozzati. E le parole durissime e le grida di rabbia e di rancore, di timore che pure ci sono state sembrano quasi essere rimbalzate verso l’esterno, verso quell’orizzonte, a volte più nitido da scorgere a volte meno, così speculare e simile alle fasi altalenanti della nostra relazione d’amore.

In questo sentimento io ci ho creduto sino alla fine, sai? Coprendomi il capo di cenere e passando sopra alla tua furia e alle tue giustificazioni pietose, alla profanazione del mio corpo di donna e al cilicio che a un certo punto, sempre più spesso, hai voluto che io indossassi. Per motivi futili, hanno detto alcuni. Per non averti amato abbastanza, mi sono ripetuta a mente io, restando ostinatamente, pervicacemente fedele al giuramento che ti avevo fatto davanti a tutti.

Ho cercato di sorridere anche quando mi sono costretta a guardami per metà nello specchio tondo di camera, nel tentativo maldestro di celare un’ombra violacea su uno zigomo, segno tangibile della tua profonda insoddisfazione verso di me e verso il mio modo di esistere, o un labbro spaccato e dolente, colpevole di aver portato un rossetto per te troppo colorato e vistoso. Le mie scelte estetiche ti sono apparse di volta in volta troppo audaci o troppo poco appariscenti, procurando il tuo fastidio, la tua collera. Un mutare d’accento continuo, il tuo, per me destabilizzante e poco indicativo del tuo reale sentire del momento. Una iattura che non mi ha portato affatto bene e che mi ha condannata a un lento, inesorabile declino, facendomi perdere consistenza e consapevolezza umana, di persona.

Non sono stata capace di guardare al di là del mio naso e la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Forse avrei dovuto e potuto fare diversamente. E’ questo l’ultimo pensiero con cui ho colmato il mio sguardo attonito, interrogativo, mentre il tuo coltello affilato frugava impietoso all’altezza del cuore di questo mio corpo troppo docile, desolatamente arrendevole. Impossibile pensare e credere che tu potessi arrivare a tanto. Eppure l’hai fatto.

Tu, il mio primo e unico amore, il mio compagno di vita, il mio uomo.

In questa stanza dai toni tenui e rassicuranti il mio spirito ha voglia di trattenersi ancora sino a quando il tempo delle risposte non si sarà compiuto.

Di aprire cassetti ossessivamente svuotati. Di accarezzare con la punta delle dita ogni cosa poggiata su quel comò antico con i gesti familiari di un tempo; ridando vita a oggetti che nessuno ha avuto il coraggio di chiudere in uno scatolone e dimenticare nel fondo di un magazzino buio e senz’aria. Sono stata io a suggerirlo con voce bassa e suadente, a farli desistere da questa incombenza pietosa per loro certamente rassicurante. Tutto deve restare così com’era allora sino a quando ce ne sarà ancora bisogno.

Perché io avverto ancora l’esigenza di far ondeggiare e tintinnare le stampelle dell’armadio come al soffio d’aria benevolo e leggero di brezza di primavera, prima di richiuderne con cura le ante fino al prossimo utilizzo.

Desidero coprirmi con leggerezza con un lenzuolo freschissimo di lino ricamato a mano, quello della nostra prima volta insieme, lasciandolo scivolare sulla mia pelle nuda, liscia e levigata di ragazza di un tempo.

Voglio spegnere con dolcezza l’abat-jour sul comodino al lato del letto aspettando pian piano che i miei occhi spalancati sul nulla si abituino al buio profondo e prendano a sondare attraverso le ombre della sera i contorni conosciuti della nostra quotidianità di coppia, mia e tua. In attesa di te e del tuo spirito che ora, ne sono certa, sta vagando in un altrove impensabile e indescrivibile, certamente disumano e ben lontano da questo limbo che mi è stato concesso di popolare con silenzioso e rinnovato dispiacere.

Ancora per qualche giorno, ancora per qualche ora, formulando domande a cui nessuno, per l’eternità, potrà forse più rispondere per noi.

Questa stanza della memoria sarà il nostro sentiero battuto per altri che non avranno scusanti per non pensare, per fingere di non ricordare e poi fuggire con colpevole leggerezza dal dolore e dal prevedibile orrore del mio sangue versato per noi, per loro, per tutti nel chiarore di un’alba ancora troppo vicina per poter dimenticare.

 

Lucia Guida

 

Tramonto_aldo sterchele

Il dipinto “Tramonto” è di Aldo Sterchele

Presentazioni d’autore: “Lanterne per riconoscermi” di Maria Luisa Mazzarini

Ho conosciuto Maria Luisa diciotto anni fa e per un intero anno scolastico abbiamo condiviso un pezzetto di percorso professionale come docenti, lei di Lettere e io di Lingue. Incontrarci nuovamente rispettivamente in veste di poetessa, per lei, e di prosatrice, per me, nel corso di un evento letterario è stato uno di quegli scherzi esistenziali che  il Destino, bontà sua, ogni tanto si diverte ad architettare.
Gli amici che mi conoscono sanno che nutro per la poesia una sorta di timore reverenziale e, quindi, accoglieranno questa piccola recensione, da me fatta puntando più su questioni di gusto che su un tecnicismo e una specificità che non posseggo, il giusto tributo a un’Arte posseduta ed esercitata, invece, da Maria Luisa Mazzarini con maestria ed estrema eleganza.

Buona lettura

La silloge

 

“Lanterne per riconoscermi” è la terza silloge di poesie di Maria Luisa Mazzarini. Attraverso un percorso fatto “D’Amore, di Acqua e di Luce, di Sole e di Luna, di Fiori, di Sogno”  narra le sensazioni e le emozioni di un’anima in stretto e profondo contatto con la natura e con tutto ciò che la circonda, facendosi per lei Vita, elementi rappresentati attraverso una scelta precisa e minuziosa di vocaboli in cui il significato e il significante coincidono con una sensibilità squisitamente femminile, pur lasciando ampio margine di discrezionalità al lettore che si accinge a tuffarsi in un mare di tableaux vivants fatti, appunto, di parole usate con sapienza, capaci di prenderlo per mano e di portarlo in più di una dimensione spaziale e temporale in cui il terreno si mescola abilmente al divino; in un gioco di parti in cui, tuttavia, non c’è vinto o vincitore ma soltanto lo stupore di vivere un’esperienza sinestetica, fatta di espressività contrastante ma, al contempo, emotivamente assai coinvolgente.

Maria Luisa definisce le sue crezioni poetiche “i miei gioielli” ed è accorta e lungimirante in questo; in più di una circostanza le sue liriche fanno, infatti, pensare certamente a uno scrigno capiente in cui trovano la giusta accoglienza preziosità elaborate in foggia diversa, caratterizzate dalla stessa luce fatta di brio e stupore: la medesima meraviglia di una bimba posta di fronte alla luminosità di un tesoro con cui  potrà giocare a lungo perché qualcuno l’ha autorizzata a farlo, premiandola per la sua diligenza e la sua abilità a maneggiarlo con cura, sicuro della sua buona fede e autenticità a preservarlo dall’opacità del tempo e della quotidianità.

Nei suoi versi trovano, quindi, posto minuterie di un microcosmo vivo e brulicante fatto di fiori di campo e di serra, animali e insetti, i quattro elementi evocati da ciò che li rappresenta visivamente a noi esseri umani ( il sole, il vento, le nuvole, il cielo, l’aria, le acque di ruscello e di mare … ) , in cui non c’è distinzione alcuna tra ali di farfalla e petali di rosa, sorriso di fiori e silenzio di sogni e di stelle, ma appare unicamente la consapevolezza dell’autrice di gratificare  e cullare quegli uomini e quelle donne che possiedono la capacità di immergersi e nutrirsi di queste preziosità, liberandosi e ritemprandosi dagli affanni di una vita spesso frenetica, distratta e di poca soddisfazione.

Viene da pensare che se possibilità di salvezza ci sarà per noi, in primis una salvezza emotiva e sentimentale capace di liberarci da un’esistenza che potrebbe tendere a desertificare la nostra interiorità, questa sarà certamente racchiusa nella bellezza della Poesia, unica chiave di volta e di accesso alla riscoperta di un rapporto vivo e reale, fatto di scambi generosi con tutto ciò che ha determinato la nostra umanità più profonda e che, ancora, è alla base e a fondamento della nostra unicità, un’ essenza fatta di naturalità rigenerante e feconda, pronta di slancio a perdonare l’umana debolezza e ingratitudine.

 

ORO E ARGENTO

Il Poeta

d’oro sublima

ciò che l’uomo

calpesta.

A sera

sa dove trovare

la sua luna d’argento.

M.L. Mazzarini

 

L’autrice

 

Nata ad Umbertide (PG) e laureata in Lettere Classiche, Maria Luisa Mazzarini vive da più di 40 anni a Loreto Aprutino (PE) dove ha svolto attività di docenza e di scrittura. Ha pubblicato nel 2010 “E poi soltanto il vento” e nel 2012 “Fuga in gonna di farfalle” per Aletti. “Lanterne per riconoscermi” (2014 ) è edito da Divinafollia.

Maria Luisa Mazzarini, Lanterne per riconoscermi, ISBN: 9788898486274, € 12,00

 

 

Sulla riva del mio Presente

Fino a qualche anno fa ho lasciato che fossero le pagine di un blog della community di libero a custodire le mie riflessioni, divertendomi, da prosatrice più che da poeta, a esprimerle qualche volta in versi.

Approfittando dell’indefinitezza di questa giornata festiva di agosto, tutta nuvole e sole, vi propongo un mio componimento intitolato “Sulla riva del mio Presente”

A presto

Lucia

Sulla riva del mio Presente

 

Sulla riva del mio Presente

mi son seduta,

lo sguardo al cielo

e al cielo i miei pensieri.

Sentendomi  ricca dentro

ho taciuto,

crogiolandomi nel tepore

insperato

di una giornata di festa,

di sole e di sereno.

Il Passato è lì

che attende,

sagoma di monti all’orizzonte

sfumata nel blu

di ciò che è già stato.

Ma è un’ attesa pacata,

simile al saluto di chi

resta;

mentre il treno

dell’ancora possibile

pian piano prende la rincorsa

per portarmi

via e lontano.

 

L. Guida  (2011)

 

 

“Past. Present. Future.1” , Anna Razumovskaya