Working in Progress : Editing a Short Story

From Wikipedia:

“ Editing is the process of selecting and preparing written, visual, audible, and film media used to convey information through the processes of correction, condensation, organization, and other modifications performed with an intention of producing a correct, consistent, accurate, and complete work.

The editing process often begins with the author’s idea for the work itself, continuing as a collaboration between the author and the editor as the work is created. As such, editing is a practice that includes creative skills, human relations, and a precise set of methods (…) “

 

L’editing è una delle operazioni più complesse e nel contempo più semplici della pubblicazione di un libro. Una sorta di processo di assimilazione-accomodamento di piagettiana memoria tra  autore ed editor, in cui non ci sono vinti né vincitori ma semplicemente due persone che lavorano a un unico scopo: quello, cioè, di rendere accattivante e funzionale un testo per il pubblico dei lettori. Con competenza ma un briciolo di cuore, almeno secondo la mia personale opinione.

Gli autori, è cosa arcinota, appartengono a una razza estremamente bizzarra: molto spesso ermetici e prigionieri di emozioni, stati d’animo e percorsi di pensiero e altrettanto convinti di fornire sempre chiavi di lettura piane, trasparenti al loro pubblico. Senza curarsi talvolta dei necessari traits d’union.  La loro prospettiva è quella da cui si pone un qualsiasi individuo quando dal chiuso di una stanza prova a rimirare un paesaggio, senza però liberarsi delle vestigia del luogo che lo  accoglie. Del paesaggio riuscirà a percepire tantissimo ma probabilmente non con una visione a tutto tondo offerta, invece, dall’osservazione della stessa veduta dalla sommità di una collina.

Il fatto è che l’autore, specie se esordiente, nutre nei confronti della propria  opera lo stesso atteggiamento amorevolmente protettivo di una madre alle prime armi: vorrebbe che la sua creatura muovesse i primi passi nel mondo circostante pur non essendo sempre pronta ad accettarne gli inevitabili costi emotivi.

Questo perché editare è un atto di umiltà estrema, come farsi passare da capo a piedi da una macchina a raggi X: impietosa, precisa, impersonale, professionale.

Non a caso l’editing è uno dei punti di forza delle migliori case editrici. E qui mi fermo perché di quest’ultimo discorso voglio cogliere solo l’aspetto migliore e non già la propensione, da parte di alcuni editori, a uniformare, a torto o a ragione, le opere da loro pubblicate al loro taglio (sic!) editoriale.

La mia proposta odierna di lettura per voi è l’editing di un mio racconto breve di un paio di anni fa mai pubblicato in cartaceo a cura di Pescepirata.it, un giovanissimo laboratorio di scrittura e forum letterario molto innovativo. Tra le varie proposte ricevute per la mia storia, ho scelto quella di bruno, più vicina alle mie scelte narrative, ma il mio debito di riconoscenza va anche a MasMas che del mio racconto ha fornito una versione “giornalistica” netta e scorrevolissima, e a LICETTI che è riuscita meglio a percepire quello che di evocativo mi sarebbe piaciuto trasmettere al lettore.

 

 

LA BOTTEGA DEGLI OROLOGI *

 di Lucia Guida 

 

Per Valterio il tempo si era fermato nel preciso istante in cui, un mattino di quattro anni prima, aveva aperto i battenti della sua bottega e soffermato lo sguardo incredulo sulle lancette immobili del pendolo francese. Quell’orologio imponente e bifronte, che aveva segnato la giornata di tanti orologiai prima di lui e determinato con rigore la regolazione di mille altri apparecchi, aveva deciso inspiegabilmente di tacere dopo secoli di onorato servizio. Giaceva inanimato tra una corte variegata di orologi a cucù,  su ceramica, con calendario e zodiaco, da tasca, sveglie trillanti e quant’altro serviva agli esseri umani nella loro ricerca di certezze quanto meno temporali.

E dire che  lui aveva sempre provveduto a dare corda al pendolo allo scoccare dei quattordici giorni prescritti, con la premura e il garbo di un giardiniere che si preoccupa  di  potare,  concimare, rinvasare e curare le piante che gli sono state affidate, aspettandosi che queste lo ripaghino delle sue fatiche.

Aveva tentato in mille modi di riportarlo in vita, ma non c’era stato verso. Alla fine, sconfitto,  si era apprestato a terminare la riparazione di un costosissimo cronografo d’epoca Zenith; aveva promesso di restituirlo funzionante in giornata e nell’urgenza del lavoro non si era accorto nemmeno che l’ora di pranzo era passata da un pezzo senza che Irina gli avesse portato da mangiare.

Quando era uscito di casa, come al solito prestissimo, l’aveva lasciata  addormentata sull’enorme letto Chippendale che aveva ereditato dai suoi zii con la casa e tutto il resto. Non aveva avuto cuore di svegliarla da quel sonno così profondo e a pranzo si era arrangiato sbocconcellando una mela.

A sera fatta aveva risposto al saluto del medico condotto, suo committente per lo Zenith, con un sorriso soddisfatto che la diceva lunga sull’esito dell’intervento e poi, serrate le imposte del negozio, aveva lanciato un ultimo sguardo al suo beniamino ridotto a totale inattività ripromettendosi di esaminarlo con cura raddoppiata l’indomani. 

A casa l’aveva accolto un silenzio innaturale, rotto solo dal miagolio nervoso del micio affamato che saltava liberamente da un mobile all’altro del tinello. Nella cucina, pulitissima e in ordine perfetto, niente era cambiato dalla sera prima.

La situazione si era chiarita grazie al biglietto lasciato in bella mostra al centro del tavolo: Irina se n’ era andata, comunicando la sua decisione in quattro parole e senza spiegazione alcuna su un foglio di quaderno.

Valterio si era passato una mano stanca sulla fronte. Andando a ritroso nel tempo aveva esaminato, finalmente con la dovuta attenzione, i tanti campanelli d’ allarme disseminati negli ultimi tempi del loro ménage; segnali a cui non aveva voluto fare caso, deliberatamente e caparbiamente. I lunghi silenzi di lei attribuiti sbrigativamente alla difficoltà di esprimersi in una lingua straniera; gli sguardi senza tenerezza e opachi, la fine delle tante premure che l’avevano conquistato e reso felice nei primi tempi del loro amore,  piccoli rituali scomparsi come neve al sole di marzo. 

Per qualche giorno aveva fluttuato in un’atmosfera irreale; portare a termine la minima azione gli costava un notevole sforzo fisico e mentale.  Ai vicini e ai clienti più affezionati aveva raccontato che sua moglie era dovuta partire all’improvviso per il suo Paese per assistere un familiare gravemente ammalato. Aveva sperato che la pietà e la discrezione prevalessero sulla morbosità e sul gusto del pettegolezzo; era stato accontentato, nessuno aveva messo in discussione pubblicamente quella sorta di recita imbastita alla bell’e meglio. Irina ben presto era stata considerata un’ospite di passaggio nel borgo e la sua permanenza temporanea volenterosamente archiviata.

Soltanto a distanza di più di un anno un suo lontano parente gli aveva riferito di aver intravisto in città una bionda somigliante a lei in maniera stupefacente, aggiungendo però in fretta che no, non poteva essere sua moglie, perché la donna spingeva una carrozzina con un neonato che piangeva a squarciagola. Lui l’aveva lasciato parlare senza alcun commento poi, rimasto solo, aveva ripensato a quei figli cercati lungamente e mai arrivati, frangente da lui accettato con filosofica rassegnazione e celebrato invece da sua moglie con lunghi silenzi e sguardi lucidi di pianto.

Il periodo di lutto era terminato il giorno in cui aveva ripreso in mano il suo ddu botte, l’organetto a due bassi imparato a strimpellare da bambino che era sempre stato di conforto nei momenti meno felici della sua vita. Era successo un pomeriggio di primavera: il ticchettio familiare degli orologi non era riuscito a rinfrancarlo come al solito. Incapace di concentrarsi su quanto aveva tra le mani, si era guardato attorno cercando un salvagente cui potersi aggrappare e l’ aveva finalmente scorto in un angolo del laboratorio, in paziente e muta attesa. L’ aveva afferrato con foga, carezzato con delicatezza i trafori sapientemente intagliati, i tasti candidi perfettamente allineati e il mantice non più libero come una volta di gonfiare il respiro. Aveva scoperto  con dispiacere tra le pieghe di quest’ultimo le minuscole larve dell’insetto che vi si era annidato approfittando dell’abbandono in cui versava lo strumento. Con delicatezza l’aveva ripulito, riportato alla luminosità dei tempi in cui le serenate erano tutte per quella donna dall’incarnato diafano che gli aveva toccato il cuore, quando aveva intonato saltarelli, quadriglie e canzoni popolari della sua terra, con la gioia di riportare un sorriso leggero in quegli occhi azzurri  malati di nostalgia. Era bastato un attimo per riannodare quell’antica storia d’amore; l’organetto aveva ripreso a vibrare sotto le sue dita, riempiendo nuovamente di suoni e colori vividi la stanza per ritemprarlo come un tempo nei momenti di riposo.

La musica e gli orologi erano state da sempre le sue grandi passioni. Era diventato orologiaio per caso e per necessità insieme, per il bisogno intenso di proiettarsi in qualcosa di certo e di tangibile.

I suoi genitori erano rimasti uccisi di ritorno dai campi, in una giornata piena di sole e di lavoro, travolti nel piccolo tre ruote da un camion che aveva perso il controllo in un tornante di montagna. Lui si era salvato perché in ritiro, quel giorno, per la sua prima comunione in un vicino santuario. Aveva appreso la notizia dalla voce tremante della perpetua, alla fine di una domenica di meditazione al profumo d’ incenso in chiesa e poi di giochi all’aria aperta, tra l’odore del grano appena mietuto e il ronzio dei  calabroni. Una giornata speciale che era stata spartiacque tra un passato infantile oramai sfumato e un presente di precoce maturità terribilmente concreto.

L’unico parente stretto, un fratello di suo padre, era a capo di una famiglia numerosa: per lui spazio non ce n’era. L’avevano accolto in casa degli zii in seconda della madre che non avevano figli. Aveva ricevuto comunque la prima comunione, col cuore gonfio per i due perfetti estranei che in chiesa avevano occupato il posto che sarebbe spettato ai genitori.

Quando oramai nessuno più si aspettava che quell’undicenne dagli occhi pieni di ombre potesse provare  interesse per qualcosa, il miracolo si era compiuto. Lo zio, orologiaio, l’aveva invitato più e più volte a recarsi nel suo negozio, ma lui aveva preferito continuare a rifugiarsi nei pressi di quella che un tempo era stata la sua casa, ora passata a un altro massaro, osservando con sguardo impenetrabile la nuova vita che vi si svolgeva, sordo perfino alle lusinghe di due tiri al pallone con i ragazzi del paese; nascosto dietro un cespuglio aveva masticato fili e fili d’erba dal retrogusto amaro, legato a doppio filo a un passato da cui non riusciva a staccarsi. Fino a quando la zia l’ aveva pregato per  l’ennesima volta di portare un certo involto al marito e lui, sfinito da tanta insistenza, le aveva ubbidito per mera educazione, senza una parola o un cenno di assenso.

Tuttavia, una volta giunto a destinazione, si era lasciato ammaliare dal fascino di quei sommessi ticchettii, così diversi l’uno dall’altro. Si era chiesto cosa potesse celarsi dietro la facciata rustica di un orologio a cucù o il ben più sontuoso sportello di un orologio da parete, solo apparentemente mossi dallo stesso scopo. E in questa sorta di rapimento era rimasto sino a quando, all’improvviso, quel coro di leali musici aveva deciso di celebrare l’ora esatta, all’unisono e in mille  variazioni.

Valterio si era riscosso  e con un po’ di vergogna aveva sbirciato il buon uomo, osservando con sollievo come questi fosse talmente intento, monocolo e strumenti alla mano, alla riparazione di un qualche sofisticatissimo meccanismo, da non aver percepito né il cigolio della porta né tanto meno quel tripudio di festosità. Alla  fine lo zio l’aveva salutato, gli aveva chiesto il pranzo ed era tornato in breve alle sue cose, lasciandolo nuovamente libero di esplorare quell’universo tanto accattivante. Da quel momento il ragazzo non si era più rifiutato di eseguire commissioni che avessero come meta finale la bottega e con un filo di voce aveva, tra un recapito e l’ altro, trovato anche il coraggio di chiedere spiegazioni sull’operato dello zio, sino a quando quest’ultimo, dopo diversi mesi, gli aveva proposto di passare parte del pomeriggio da lui, per essere iniziato a quella nobile arte in cui la precisione e l’abilità manuale dovevano per forza sposarsi con una certa sensibilità. 

Valterio poggiò con delicatezza la cassa dell’orologino da donna a cui aveva cambiato la pila, non senza procedere a una pulizia scrupolosa prima di riconsegnarlo alla proprietaria. Gli orologi a funzionamento meccanico continuavano a essere i suoi preferiti, ma era cosa impensabile chiudere la porta alla tecnologia. Ultimamente aveva preso l’abitudine di intervallare i lavori seri e sacrosanti di sempre, per i quali continuava a essere richiestissimo, con lavoretti di poco conto che pure l’aiutavano a sbarcare il lunario.

Chiuso a chiave il cassettino in cui custodiva tutto ciò che, in sospeso, avrebbe terminato nei giorni a venire, aveva abbracciato con gli occhi le pareti della stanza, frementi attraverso le casse di risonanza dei tanti ospiti che vi dimoravano stabilmente. Quella sera sarebbe passato dal bar in piazza per fare due mani di briscola con amici di vecchia data e decise che avrebbe portato con sé il ddu botte. Sapeva che gli avrebbero chiesto di suonarlo.

La vita gli aveva concesso tempo infinito da dedicare ai pensieri e alle riflessioni nella nicchia discreta della sua bottega; ogni istante presente, passato e futuro era prezioso e irrinunciabile.

La mascherina istoriata di un pendolo di legno e metallo gli rimandò il monito conosciuto di  Tempus Fugit  e lui pensò che davvero non era possibile tornare indietro,  ma soltanto guardare avanti. Con quella certezza, in cui erano racchiuse in egual misura residue scintille di speranza e  qualche segreto rimpianto, spense la luce della bottega, con la netta impressione che cento anime trattenessero per lui il respiro. Poi, con il ddu botte a tracolla, prese deciso la stradina che saliva verso il centro del paese pulsante di vita, nella bruma di novembre, accompagnato dal rumore amico dei suoi passi tranquilli e solitari.

 

* Editato gratuitamente dalla community di Pescepirata.it a cura di bruno

” Orologiaio “,  A. Caselli

 

 

Poetando emozioni – Poetizing Emotions

Non sono una poetessa.

Non so nulla di metrica, non l’ho mai studiata. Il mio approccio alla poesia è quello di una brava cuoca che s’ingegna a riprodurre con esercizio di buona volontà le creazioni di un grande chef. Una volta mi è capitato di condividere questa mia estrema consapevolezza con i membri di un gruppo di poesia su Facebook dopo aver postato  a beneficio della loro lettura il mio primo haiku. Immediatamente ho ricevuto due commenti: il primo sottolineava con precisione ingegneristica le caratteristiche dell’haiku ( e come il mio gli somigliasse solo di straforo ! ). Il secondo era un vero e proprio rimprovero: per la commentatrice si è poeti o non lo si è, senza se e senza ma. Magari aveva anche ragione.

Faccio ancora parte del gruppo di cui sopra ma non ho più trovato il coraggio di postare altro: forse perché al di là dei tecnicismi la poesia per me è  sentimento puro,  colore che sfuma in altro colore. Qualcosa di ineffabile che il poeta si ostina a fermare su un pezzo di carta. E l’ineffabile, si sa, non si può ingabbiare.

Le mie proposte per voi sono il famoso haiku e una poesia in versi sciolti scritta in occasione dell’8 marzo un paio di anni fa.

Buona lettura

Luce di Luna

Chiara turba anche

Notte profonda

Photo: “Luce di luna” di P. Kratochvil

Non regalateci mimose

Non regalateci mimose

comperate da fiorai distratti,

vaporosi ed effimeri

pegni di risarcimento

di amori trascurati e delusi:

dureranno una manciata di pensieri

in un giorno isolato

che non ci farà sbocciare

esplodendo di vita piena.

Non riempite il vaso del vostro rimorso

con splendidi fiori recisi di serra;

quel dito d’acqua che li terrà vitali per poche ore

non potrà sostituire

la terra grassa e bruna

di un campo all’ aria aperta.

Offriteci, invece, una pianta d’ulivo;

minuscola

ma con radici ben piantate al suolo

sferzata dal vento

blandita dalla pioggia

accarezzata dal sole.

E’ quello di cui noi donne

più abbiamo bisogno:

bellezza infinita

che traspare da sembianze semplici

e cura costante degli elementi,

l’abbraccio forte, vero

e fragile

di un uomo che è verità, forza

e fragilità.

Questo e questo soltanto

ci necessita

e non già vetro trasparente di serra

mentre fuori imperversa

la bufera.

Lucia Guida

Photo: “Luras, albero di olivo secolare” in SARDEGNA DigitalLibrary

An Excerpt from “Scelta o destino, Antologia di racconti”: Polvere di stelle

Polvere di stelle

Una notte di S. Lorenzo come quella non s’era mai vista. Lo sguardo puntato alla volta celeste rapita da quella scia finissima di stelle cadenti, mi convinsi che i desideri più segreti potessero tramutarsi in realtà. Lo pensai per me stessa e per te, creatura mia, racchiusa nel mio grembo e già così vitale. Sapevo che saresti stata una bimba e volevo per te un avvenire migliore ben diverso dal mio, lontano da un’infanzia finita precocemente ancor prima di sbocciare fatta di  privazioni, di sogni sfumati bruscamente e di continue battaglie per la sopravvivenza spicciola.

A quindici anni avevo accettato di andare a servizio in città sostituendo al verde tenue delle risaie il grigio uniforme di abitazioni scurite dal tempo dai comignoli svettanti verso cieli incerti. Il parroco, cui avevo chiesto aiuto, m’aveva raccomandata a certi conoscenti alla ricerca di una ragazza senza troppi grilli per la testa e capace nel lavoro domestico. Il mio primo viaggio in treno era durato un giorno intero offrendo ai miei occhi avidi i paesaggi veneto, lombardo e piemontese in tutta la loro opulenza autunnale. All’arrivo il padrone di casa, capo contabile in una cartiera, si era appropriato del mio poco bagaglio senza notarne l’inconsistenza. Quella notte sbirciando dalla finestra un cielo dal blu indefinito avevo pianto a lungo. L’indomani all’alba avevo in fretta raggiunto la cuoca in cucina che dopo avermi rifocillata mi aveva mostrato come accendere l’enorme cucina economica lasciando che una nuvola spessa di vapori e odori preludio dei pasti della giornata ci avvolgesse. Fianco a fianco avevamo lavorato in silenzio sino a quando la siora era venuta a salutarci e a impartire ordini. Intimidita l’avevo appena sbirciata mentre lei soppesava il mio volto diafano, le trecce color stoppa, la figurina inconsistente per poi chiedere alla Ada di darmi qualcosa con cui sostituire l’abituccio che portavo, per me il migliore. Ero stata assunta.

Ogni giorno mi levavo zelante per tempo in attesa che in quella casa di paroni ciascuno si dedicasse ai propri impegni; osservando spesso attraverso la vetrata che li separava da me la Mara, impiegata, e suo fratello Filippo, universitario, vivendo di riflesso un’esistenza dorata cui non appartenevo. E tuttavia rassettare le loro stanze non mi pesava affatto. Accarezzarne i mobili ben tenuti mi dava curiosamente la possibilità di riandare col pensiero a quanto avevo lasciato pur senza troppi rimpianti risvegliato dalla cera profumata che ne impregnava il legno lucido e che mi ricordava l’odore d’incenso della messa alla domenica. Diverso dalla costosa essenza di Mara, provata di soppiatto un pomeriggio in cui i Barberis al completo, le donne avvolte in soffici stole di volpe, si erano recati al cinematografo per vedere Amedeo Nazzari. In quel giorno di festa anch’io e la Ada avevamo  goduto di qualche ora di libertà. Con la Isa, a servizio come me, ero stata in estatica contemplazione del Valentino immerso in un’acerba primavera mentre la cuoca aveva preferito visitare alcuni parenti che abitavano in periferia in una delle tante case di ringhiera. Per un po’ avevo ripensato alla solenne processione del Venerdì Santo e alla festosità dei pianini napoletani coi loro ballabili e le canzoni popolari alla Domenica di Pasqua ridondanti per le vie del borgo mentre seduta su una panchina osservavo il passeggio permettendomi il lusso di un gelato comprato da un ambulante e accettando con la mia compagna la corte impacciata di Cesco e Beppe, operai, anche loro come noi in libera uscita a disagio nei vestiti buoni lontano dal frastuono della fabbrica. Cesco, di Noale, veneto come me anche se de mar era a Torino da pochissimo e divideva una camera con Beppe, marchigiano di Ancona. Alla fine ci eravamo salutati tutti con la speranza di rivederci e con un sorriso. La vita aveva ripreso con lentezza il solito corso sino a quando il destino non ci aveva messo lo zampino e al Cesco, cui avevo confidato il mio indirizzo, era venuto in mente di aspettarmi qualche sera dopo sotto casa in attesa che con una scusa scappassi ad incontrarlo. In men che non si dica ero diventata la sua morosa, la nostra promessa suggellata dalla visione di un film di sentimento e passione e da numerosi baci che ci eravamo concessi con ingenua e sincera prodigalità. La mia aria svagata non aveva tuttavia tratto in inganno la Ada, la quale mi aveva una domenica colta in flagrante da lui in atteggiamenti inequivocabili. Con insperata gioia l’avevo udito impegnarsi solennemente a sposarmi e la brava donna, rasserenata, aveva fatto da intermediaria presso i paroni perché ciò in breve tempo si compisse. Ed eccomi lì con una sottile fede d’oro al dito, regalo di nozze dei Barberis che così maldestramente avevano vegliato sulla mia illibatezza nonostante le molte raccomandazioni del don.

In una concisa lettera avevo spiegato le novità ai miei promettendo di visitarli quanto prima, poi mi ero trasferita nelle due stanze procurate con premura dal mio uomo gomito a gomito con altre due famiglie già avviate, l’una di operai, l’altra di anziani ambulanti.

In quella prima sera da sposa mi era sembrato di toccare il cielo con un dito; una casa tutta nostra, la mano confortevole di mio marito poggiata sul mio ventre a cercar di carpire i primi movimenti di nostro figlio. L’affettuosa indiscrezione di nuovi amici, pronti da subito a darmi con semplicità una mano. Un cielo estivo da poter rimirare con libertà in qualsiasi momento ne avessi avuto voglia.

Condividendo con te, figlia mia, attese e speranze future con le tue movenze lievi di farfalla appena sotto il mio cuore quasi a chiedermi perdono per la notte insonne procuratami.

Respirando a fondo avevo chiuso gli occhi su quella luminosità di seta marezzata. Saresti stata Stella, avevo deciso, e il tuo cammino di donna generata per salite spesso difficili da intraprendere sarebbe stato in piano, illuminato dalla benevolenza costante di un astro lontano, il tuo. *

“Polvere di stelle” in A.A.V.V. (2011), Scelta o destino, antologia di racconti, Cooperativa Tipografica degli Operai, Vicenza

 

” De sterrennacht ” by V. Van Gogh