Coups de chance

Anche per quest’anno il mio racconto Coups de chance farà parte in ottima compagnia della pubblicazione a cura della piattaforma Ready to Read per la sezione Hotel Stories. Con il placet del patron Mauro Gabba ve ne propongo la lettura integrale invitandovi a immergervi in tutti gli storytelling della pubblicazione per scoprire località e residenze di pregio di cui la nostra Italia è ricca.
A presto

COUPS DE CHANCE

Quel coup de chance capitò a Fiorenza all’improvviso e per vie del tutto inaspettate.

Non era mai stata fortunata al gioco e in vita sua aveva vinto un unico premio: una confezione di pistacchi tostati in occasione di una lotteria di Natale a cui aveva partecipato anche lei, organizzata dal Cral della ditta di suo marito. Un magro premio di consolazione tra settimane bianche, una mountain bike e un pacchetto benessere in una spa della zona. All’epoca Dario l’aveva bonariamente presa in giro e la serata si era conclusa tra risate e coccole in camera da letto. Possedevano entrambi il mondo nel palmo di un’unica mano e lo sapevano alla perfezione. Tutto il resto contava davvero poco.

Il mese passato aveva aderito in ufficio a quella riffa di beneficienza perché credeva nella causa patrocinata da Olga, sua collega e attiva collaboratrice di una Onlus che si occupava di persone anziane in difficoltà. Il biglietto di carta sottile rosa che riportava il suo cellulare e un numero in serie era, quindi, finito nel portafogli tra mille minuzie legate alla sua quotidianità spicciola. Quel venerdì mattina era letteralmente caduta dalle nuvole arrivando al lavoro e trovando i suoi colleghi schierati in sua attesa mentre Olga le porgeva una busta invitandola ad aprirla.
– Ciao, Fiore! Guarda un po’ cosa c’è, oggi, per te…

Lei aveva obbedito stupita e si era meravigliata non poco leggendo la consistenza della sua vincita: un weekend in una prestigiosa villa d’epoca, Villa La Meridiana, a Santa Maria di Leuca, in Salento.

Le era toccato offrire un caffè a tutti tra una congratulazione e l’altra dei suoi colleghi, divisi tra la partecipazione sentita al suo colpo di fortuna e una punta d’invidia benevola nei suoi confronti.
Quella piacevole novità l’aveva messa di buonumore, non vedeva l’ora di condividerla con suo marito.  Con un’idea sui generis che quell’insperata circostanza aveva contribuito a far nascere in lei: un disegno preciso che si era rafforzato a dismisura nell’attimo in cui aveva telefonato al titolare dell’agenzia di viaggi che aveva emesso il voucher.

Tornata a casa aveva preparato in poco tempo una cenetta semplice ma gustosa aspettando con una certa impazienza il rientro di Dario, dividendosi tra le incombenze di moglie e quelle di madre con la telefonata serale dedicata a sua figlia, studentessa in Erasmus a Marsiglia.

-Complimenti, mamma! Che cosa bella! Dai, dimmi la verità che non vedi l’ora di farti un bel viaggetto con papà- si era congratulata con lei la ragazza. E lei, suo malgrado, aveva dovuto ammettere a voce alta che sì, era proprio quello che aveva intenzione di fare.

Dario era arrivato con qualche minuto di ritardo rispetto al solito dandole un bacio leggero sulle labbra prima di abbandonare il suo zainetto di lavoro sulla poltroncina dell’ingresso.

-Che c’è per cena?-, le aveva chiesto. E, senza aspettare la sua risposta, si era fiondato come d’abitudine sotto la doccia ben deciso a scrollarsi di dosso la fatica di quella giornata lavorativa intensa.
Avevano iniziato a cenare in silenzio, accompagnati dal ronzio della Tv in sottofondo.
Portando in tavola una macedonia di fragole Fiore non ce l’aveva fatta più a tenere il segreto.
– Indovina un po’…

-Cosa, amore?- le aveva replicato distratto lui, alzando col telecomando il volume della televisione alla notizia di un episodio di cronaca che l’aveva particolarmente colpito.
Fiorenza non si era lasciata fuorviare dalla sua apparente indifferenza.

-Prepara il trolley, quest’anno il nostro anniversario lo trascorriamo in un posto speciale-, aveva aggiunto con tono deciso.
Dario aveva continuato a seguire il reportage giornalistico di quel programma d’assalto che tanto lo aveva preso fino alla fine; poi aveva spento la TV e il soggiorno era piombato in un silenzio che li aveva avvolti in una cappa di indefinitezza.
-Dicevi, Fiore?

Lei aveva respirato a fondo e gli aveva esposto il suo programma in maniera più esplicita.

-Dicevo che quest’anno possiamo evitarci la solita cenetta a due per il nostro anniversario. C’è una novità-. Ed era partita col suo racconto condito di entusiasmo e di sorpresa per quel weekend provvidenziale piovutole dal cielo, descrivendo con dovizia di particolari quel viaggetto all’insegna del benessere psicofisico fatto di paesaggi mozzafiato, natura incontaminata e dimore d’epoca dotate di ogni comfort.

Lui l’aveva ascoltata in silenzio, senza commentare. Poi le aveva replicato scegliendo con cura le parole da usare.

-L’idea è fantastica, di sicuro.

-Peccato davvero che per quel fine settimana di giugno che hai in mente io sia impegnato qui in zona in una convention con il nuovo responsabile dell’area marketing della ditta-, aveva concluso con appena un filo di esitazione.

Fiore lo aveva ascoltato delusa. La situazione che lui le aveva prospettato aveva avuto lo stesso effetto di una doccia gelata.   

-Una convention? Non me ne avevi parlato per niente…

-…contavo di farlo stasera, è una notizia che risale solo a qualche giorno fa-, aveva aggiunto lui lentamente, alzandosi e prendendo a sparecchiare.

Fiorenza ripensò a quell’isola felice che si era prefigurata in una manciata di ore. Lei e Dario non erano certamente una coppia di primo pelo, (di ciò lei era più che consapevole!) eppure insieme erano riusciti a doppiare dignitosamente parecchie boe nell’istante in cui alla passione e alla frenesia iniziale erano subentrati affetto, rispetto e stima reciproci. Fece per aprire bocca per chiedergli qualcosa ma lui continuò a parlare senza lasciarle via di scampo.

-Mi dispiace, Fiore. Stavolta è andata così. Festeggeremo quanto prima, promesso-.
Il senso di profondo sconforto non ebbe, tuttavia, il potere di distoglierla da quel piano che pian piano e suo malgrado aveva preso una consistenza ben definita. In ufficio si guardò bene dal rifiutare quel giorno extra di ferie messo a sua disposizione con generosità dalla sua compagna di stanza, Marina, per aiutarla a concretizzare quella che, sentimentalmente, le era apparsa come fuga romantica a due.
Fiore partì da sola, in treno, all’indomani dell’inizio della famosa convention di Dario.

Quel progetto nato per caso e cresciuto con caparbia si era fatto vittoriosamente strada. Non aveva affatto intenzione di rinunciarvi barattandolo con qualche ora trascorsa sulla spiaggia della città in cui abitava, né col costoso mazzo di rose che lui, ne era certa, le avrebbe fatto pervenire per sistemare le cose tra di loro.

Lecce l’accolse con la ricchezza austera delle sue chiese e dei suoi palazzi nobiliari in pietra calcarea. In attesa di prendere un pullman per raggiungere Santa Maria di Leuca si concesse il lusso di passeggiare all’ombra degli edifici antichi che ne abbellivano il centro storico e di pranzare velocemente scegliendo, tuttavia, con cura un locale nella suggestiva Corte dei Cicala, sorpresa sua malgrado dal suo spirito d’iniziativa.

Santa Maria di Leuca le fece dono al suo arrivo di un’atmosfera fané che non le dispiacque. Il borgo era incantevole come se lo ricordava quando da bambina trascorreva brevi periodi di villeggiatura ospite di amici di famiglia dei suoi; la costa rocciosa degradante verso il mare con morbidezza pareva rispondere perfettamente al suo stato d’animo attuale bisognoso di equilibrio e di conferme.
Una volta arrivata a destinazione apprezzò la riservatezza con cui l’addetto alla reception si fece bastare la spiegazione che probabilmente suo marito, con cui aveva inizialmente pianificato di pernottare in loco, non avrebbe fatto in tempo a raggiungerla.
Decisa a far fruttare al meglio il suo soggiorno si riposò in camera tra la frescura delle lenzuola di lino bordate di pizzi fatti a mano, dando uno sguardo distratto ai messaggi e alle chiamate che l’avevano raggiunta, a cui rispose con un laconico ‘Sto bene. A presto’ mentre i suoi occhi rincorrevano pensieri attraverso le sottili lame luminose che filtravano dalle persiane accostate con cura. 
Pochi minuti ed era già in cammino verso Punta Mèliso costeggiando senza fermarsi il porto turistico affollato di natanti di varia dimensione. La sua esigenza di essenzialità si incontrò perfettamente con la scabra bellezza della costa e lei avvertì l’urgenza di trovarsi di fronte al mare aperto spingendosi fino al santuario di Santa Maria de Finibus Terrae di Castrignano del Capo, in equilibrio perfetto tra oriente e occidente. Respirò aria di mare pura e rigenerante mentre guardava pensosa il faro, bianco e slanciato verso l’alto, alla sinistra della basilica. Non sapeva quanto di metaforico tutto ciò rappresentasse per lei ma godette di quell’istante fino a quando la luce del giorno glielo consentì.
Tornò in residenza in tempo per dedicarsi alla cena che aveva ordinato per sé con l’aiuto del concierge in un ristorantino a pochi passi dalla Villa.
Fiorenza si abbigliò con cura quella sera. Indossò un abitino di lino e seta smeraldo longuette semplicissimo impreziosito da gioielli etnici al collo e ai lobi lasciando sciolti sulle spalle i capelli castani che di solito portava raccolti in ufficio per questioni di praticità. Completavano la sua mise un paio di sandali bassi dalla fattura artigianale, eleganti e comodi. Aveva lasciato in albergo il cellulare e si era portata l’essenziale in una sacca di seta grezza rubata dall’armadio di sua figlia che l’aveva acquistata durante un viaggio in India come cooperante.

Al tavolo gustò una cena semplice e tipica scelta sul menu con minuzia, concentrandosi sulle prelibatezze locali a base di pescato. Il cibo era uno dei piaceri della vita, e allora perché non approfittarne degnamente? Di quella vacanza rubata a caro prezzo allo scorrere dei giorni lento e ripetitivo voleva godere fino all’ultima goccia. ‘Mustazzolo’ incluso, un inconsueto dolce a base di vin cotto in cui riconobbe l’aroma inconfondibile e particolare della cannella e la dolcezza discreta del miele, servito con una nuvola di crema alla vaniglia.
Il locale era popolato da un paio di comitive e da qualche coppia. Gli unici avventori in solitaria erano lei e un uomo di mezza età dall’aspetto giovanile, vestito in modo casual ma ricercato. Fiore distolse il suo sguardo da quello del suo compagno nell’attimo in cui si rese conto di aver suscitato il suo interesse.
Ma le circostanze decisero per lei nell’attimo in cui il cameriere le portò un bicchierino ricolmo di liquore ambrato.

-Un piccolo omaggio dal signore laggiù, una lacrima de ‘Le Ricordanze’, un vino passito locale. Ottimo accompagnamento per il suo ‘mustazzolo’. –
Fiorenza incontrò lo sguardo cordiale del suo compagno che alzò verso di lei un bicchierino ricolmo della stessa bevanda.
Sorrise per ringraziarlo e iniziò a sorseggiare il vino liquoroso, dolcissimo e dal tono robusto.
In circostanze diverse si sarebbe schermita e non avrebbe accettato per nessun motivo le profferte di un perfetto sconosciuto ma quella sera sentiva di poter osare qualcosa di diverso. Era uno dei privilegi della maturità, concluse, stabilendo di non indagare oltre sull’intraprende disinvoltura che l’aveva afferrata.
Pagò il conto e decise di regalarsi una breve passeggiata nell’aria tiepida e profumata della notte.

-Di passaggio a Santa Maria per il fine-settimana?

Scoprì che ad affiancarla con passo morbido e rapido era stato il bel tipo del ristorante. Lei lo guardò con una punta di ironia, per nulla spaventata. Era curiosa di sapere dove sarebbe andato a parare.

-Esattamente. Riparto a breve-, gli concesse stringata.
-Presumo viaggio di piacere.

-Proprio così – gli rispose ostentando la mano sinistra in cui riluceva il solitario che Dario le aveva regalato in occasione del loro primo anniversario, quello in cui lei con orgoglio massimo gli   aveva annunciato di essere incinta.

L’altro abbozzò un mezzo sorriso dando prova di aver mangiato la foglia ma non mollò la presa.
-Io sono qui appositamente. Quando vengo per lavoro a Lecce mi regalo sempre un soggiorno sulla costa ionica o adriatica. È il mio personale modo di volermi bene-, le disse con semplicità.
-Volersi bene nella vita è importante- gli concesse lei, suo malgrado colpita dal tono di quelle parole, continuando a passeggiare in quell’atmosfera serale così suggestiva, sospesa tra mare e terra.

Percorsero insieme la riviera costeggiata dalle sedici ville d’epoca che lo avevano reso così celebre schierate come debuttanti al loro primo ballo, parlando del più e del meno e scoprendo di possedere più di un’affinità. Fiorenza rise di gusto alle battute del suo nuovo amico. Finì che tirarono sino a tardi mentre i loro passi rimbombavano sul selciato oramai deserto.
-Io sono arrivata. Grazie per la serata- gli annunciò lei, fermandosi davanti al cancello in ferro battuto di Villa La Meridiana.
-Sei stupenda, lo sai?
Lui le sorrise e le si avvicinò.
Ama ci t’ama, e cci nu t’ama, lassalu”, “Ama chi ti vuol bene e lascia perdere chi non te ne vuole”. Chiudendo gli occhi e offrendosi a lui per essere baciata lei si chiese invano dove avesse mai sentito in passato quell’antico proverbio salentino.

Fiorenza si svegliò stiracchiandosi con voluttà.
Nonostante l’ottima cena e le emozioni della sera precedente aveva dormito a lungo.
Un’occhiata rapida all’orologio le confermò che se si affrettava avrebbe potuto fare colazione in hotel prima di iniziare il dettagliato programma stilato per quel particolare sabato di giugno. Aveva deciso di concedersi una mattinata pigra e di oziare nei paraggi, valutando la possibilità di affittare un’utilitaria per spingersi nel pomeriggio verso Gallipoli.
-Ciao, Fiore.
Avrebbe riconosciuto tra mille il timbro basso e suadente della voce di quell’uomo poggiato al muro di recinzione dell’antica Villa.

-Ciao, Dario. Hai…

-… disertato la convention e guidato come un matto dall’alba di stamattina? Sì, l’ho fatto. Dopo aver trascorso una delle notti più lunghe della mia vita annusando il tuo odore tra le lenzuola-.
Fiorenza lo guardò con un misto di fastidio e di tenerezza, ripensando ai bei momenti tra di loro e agli impasse che pure c’erano stati, alle tante fermate e alle ripartenze del loro sodalizio più che ventennale.
Lui le porse un papavero, strappato da una fessura di un muretto a poca distanza da lì.
-Buon anniversario-

Lei lo prese e se lo mise nell’asola del primo bottone del prendisole vintage. Poi gli accarezzò il mento con un accenno di barba e lo baciò sulle labbra, respirando il suo odore di uomo misto al dopobarba con cui lui si era asperso il viso. Un pensiero veloce andò a ciò che non si era compiuto solo poche ore prima nell’attimo in cui il suo sconosciuto ammiratore le aveva sfiorato il viso con un fiore di buganvillea chiedendole di passare la notte insieme e lei gli aveva risposto di no. Quanto tempo era trascorso? Una vita intera, si disse. 

-Buon anniversario a te, Dario. Bentornato.

Lucia Guida    

READY TO

Fotografie

Cari amici, 

per voi oggi un mio racconto breve pubblicato il 10 ottobre 2020 nella rubrica letteraria “Il sabato del racconto” di Parma Repubblica.
Poche righe che parlano di memoria e di affetti e di storie familiari inalienabili nel tempo che hanno ancora molto da raccontare.
Un ringraziamento speciale a Tito Pioli, curatore della rubrica, e a Lucia de Ioanna che mi hanno scelta e ospitata sulla loro pagina
A voi buona lettura

 

FOTOGRAFIE

Erano quattro scatole di cartone di misura e dimensione diversa. In origine avevano ospitato biglietti da visita, cioccolatini, calze da donna velate, una vestaglia da camera maschile di cui si era persa traccia. Ora contenevano semplicemente fotografie scattate nell’arco di più di un secolo.

Luana le impilò l’una sull’altra, poi si sedette sul letto matrimoniale della camera dei suoi genitori e iniziò a perlustrarne il contenuto.

Non erano state conservate secondo un criterio oggettivo di classificazione perché nella stessa scatola era possibile trovare immagini di diversa cronologia: risalivano ai primi del 900 quelle dei suoi bisnonni piccole, scure e austere, accanto a quelle di sua madre ritratta da ragazza in montagna o al mare, delle scolaresche rette con doverosa autorevolezza dai suoi nonni, entrambi insegnanti, e di loro tre, Luana, Marta e Vincenzo, da neonati ad adolescenti attraverso compleanni, celebrazioni di varia natura e gite scolastiche.

Qualcuna di quelle foto aveva mantenuto intatto il suo splendore iniziale e se non fosse stato per la patina giallognola che ne adombrava il retro si sarebbe potuto pensare che fossero state fatte in tempi certamente non recenti ma nemmeno troppo remoti.

Erano gli angoli fratti, rugosi e solcati da sottili venature biancastre a denunciarne la provenienza antica e le frasi a commento vergate con una grafia svolazzante dalla bellezza obsoleta ma persistente: pensieri d’amore, commenti estemporanei sui personaggi che li avevano suscitati, semplici date trascritte in modo criptico destinate a nomi di sconosciuti che a lei non dicevano nulla.

Un flusso potente di sguardi adulti e bambini, di paesaggi vacanzieri o cittadini, di interni casalinghi o di studi fotografici rappresentati attraverso fondali sontuosi, fatti di giardini lussureggianti uguali per tutti in cui l’unico segno distintivo era quello di ospitare l’immagine di una zia che non c’era più con la sua feluca goliardica in testa e il volto sognante rivolto verso un invisibile interlocutore o l’atteggiamento attento di suo nonno bambino vestito alla marinara il visetto pensoso immortalato dal fotografo per regalare a figli, nipoti e pronipoti l’idea di un giorno speciale trascorso con l’abito buono costato denaro e sacrificio a una madre che l’aveva cucito da sé o commissionato a un’altra donna madre anch’essa.

C’erano persino foto divise a metà da una sforbiciata netta a separare affetti importanti che a un certo punto avevano cessato di esserlo testimoniati da avambracci intrecciati l’uno all’altro e moine di sconosciuti uniti da sguardi reciproci e risate fragorose di cui nessuno avrebbe saputo raccontare più niente.

Luana esaminò con pazienza tutti quei pezzi di cuore altrui conservati con cura certosina perché potessero sopravvivere indenni a traslochi, abbandoni precipitosi di case, lutti e separazioni, trasferimenti da un cassetto all’altro per arrivare sino a lei e poter essere accarezzati ancora con un tocco gentile, rispettoso.

La paziente raccoglitrice di tutti quei frammenti di vita non aveva reputato di ingabbiarli in album fotografici regolamentari stabilendo di mostrarli senza filtro a chi avesse deciso di interessarsi a quei pezzi inediti di storia familiare, immortalati con generosità in fotogrammi eloquenti ma talvolta ripetitivi.

Le piacque pensare che il fotografo avesse comunque deciso di regalare quegli scatti extra al suo committente a corredo di fotografie più rappresentative che, invece, erano finite in cornici d’argento o nel portafoglio di persone care come pegno d’amore o d’amicizia per poi perdersi per strada. In quei contenitori di cartone mal assortiti, scelti per la loro capienza più che per una questione di pregio, c’era un mondo di situazioni che mancava alle narrazioni ascoltate da chi l’aveva preceduta.

Luana le prese in blocco e le infilò in una sacca in cui aveva già messo da parte uno scialle di seta della bisnonna e una borsina ricamata da teatro di una prozia materna accogliendo virtualmente dentro di sé i volti di tutti i suoi antenati di cui aveva memoria e anche di quelli che non era riuscita a individuare pur conoscendone per filo e per segno le vicissitudini. Di quei bebè sorridenti che non erano arrivati a un anno di vita e di chi, invece, aveva concluso in tarda età la propria esistenza.

Soltanto in quell’istante avvertì la compiutezza di quel gesto necessario e gentile.

Con calma spianò le grinze sul copriletto di piquet bianco del letto dei suoi, poi si alzò in piedi e, sacca in spalla, raggiunse i traslocatori in soggiorno per annunciare che in quella casa il suo lavoro era terminato.

Lucia Guida 

 

Il racconto in edizione originale lo trovate qui

 

 

 

 

                                                        Ph.credit: Artribunedotcom

 

Curpa ro cauru

Ogni tanto torno alla mia antica passione di andar per premi letterari, cercando di aderire solo a quelli di qualità.
Il racconto che posto ora è un piccolo divertissement letterario incentrato sulla vicenda tragicomica di Linuzza  e sull’imprevedibile scambio e uso di pozioni di varia natura, arrivato in finale nell’estate 2020 nel Concorso Letterario Nazionale “Socc’mel che sfiga” bandito dalle Edizioni del Loggione di Modena.
“Curpa ro cauro” è parte dell’antologia di A.A.V.V. dedicata all’evento.
Buona lettura

 

Curpa ro cauru

D’afa e d’amore si poteva anche morire. Se lo disse Linuzza davanti alla finestra della camera da letto, le persiane accostate, mentre pensava con languore a Tonio che quel giorno non si era fatto vedere, le tende di trina leggera sollevate dal suo ansimare colmo di rimpianto.

E dire che a preparare quel pranzo succulento ci aveva messo tutta sé stessa dal momento che per lui l’adagio “l’amore passa per la gola” rispecchiava fedelmente la realtà. Certa che in un bacio e in un amplesso sensuale, profondo, Tonio avrebbe impiegato lo stesso ardore che impiegava nel gustare una fetta di arrosto o una generosa porzione di lasagna. L’ora di pranzo era ormai trascorsa e di lui non c’era traccia. Si aggiustò con calma la cinta della vestaglietta di raso staccandosi con riluttanza dal davanzale alla percezione di un ciabattare inconfondibile oltre la porta chiusa.

Zzia Malù, ancora sveglia siete? Su, andate a riposare un po’.

La vecchina la guardò sorniona, poi le sorrise con candore allusivo. Lina sbuffò rassegnata.

-Ancora? Ma se stamattina ve ne ho già data una …

L’altra si strinse nelle spalle dondolandosi vezzosa come una monella.

– E va bene. Ma che sia l’ultima, intesi? E poi a nanna, di filato – sospirò lei, porgendole rassegnata una geleè alla frutta. L’anziana la carpì con avidità mettendosela fulminea in bocca, passandosela da guancia a guancia per centellinarla pian piano. Poi accettò docilmente di essere messa a letto, le lenzuola di lino ben tirate e le imposte socchiuse per trattenere fuori quell’estate torrida. Chiudendosi la porta alle spalle Lina sospirò piano. Zia Malù era parte dell’eredità della buonanima di suo marito Rocco assieme a quella casa padronale, un antico negozio di tessuti e una montagna di debiti. E dire che tutti l’avevano guardata con invidia palpabile all’uscita del Duomo in abito bianco, giovanissima, al braccio di quell’attempato e piacente scapolone che in soli tre mesi aveva finalmente deciso di maritarsi. Un vero peccato che quel matrimonio fosse stato di breve durata e che lo sposo avesse d’improvviso deciso di passare a miglior vita alla fine di una serata dedicata al vino novello e ai festeggiamenti in onore di San Martino con amici di vecchia data. Una vera fortuna che Tonio, compagno d’infanzia di Rocco, ci avesse messo tutto sé stesso a consolarla tanto da scatenare le ire funeste dell’anziana madre presso cui viveva, assai prevenuta verso quella vedovella intraprendente che pareva non perder tempo. Sbocconcellando un pezzo di crostata fragrante lavorata con amore per colui che aveva disertato il loro rendez-vous e ancora calda di forno, Lina aggrottò le sopracciglia al pensiero che altre donne potessero ambire all’amato bene. Quella maestrina settentrionale ad esempio, bionda, snella e certamente più giovane di lei, che faceva voltare più di un uomo con i suoi colori nordici a quelle latitudini difficili da incontrare. Convinta che stesse mirando con un certo interesse al suo Tonio aveva deciso di correre ai ripari, recandosi svelta da Assunta, la magàra del paese, dispensatrice di filtri magici, erbe curative e sortilegi contro la malaventura.

-Mi devi preparare un filtro d’amore potente, potentissimo – aveva esordito, ben decisa a liberarsi di chiunque fosse di ostacolo al suo bel sogno con ogni mezzo, lecito e non. L’altra l’aveva guardata, poi aveva fissato ispirata la foto di Tonio, mormorando a occhi chiusi litanie propiziatorie dal tono lugubre di cui lei aveva voluto saper poco. Magia nera o bianca poco importava, quella faccenda andava risolta.

-Mi raccomando la costanza- le aveva detto Assunta perentoria, porgendole un intrico di fili di cotone annodati che andavano immersi in acqua benedetta e poi cuciti in un panno rosso da conservare nell’imbottitura del cuscino. E lei aveva seguito alla lettera la sua prescrizione, intingendo, quella stessa sera, la manina sottile nell’acquasantiera. Poi aveva versato un bel po’ di pozione nella brocca del vino in occasione del successivo pranzetto ben attenta che lui se ne servisse a volontà, facendo dapprima onore ai manicaretti e alle libagioni e poi faville in camera da letto; lasciandola sazia d’amore tra le lenzuola intrise di sudore e dell’odore dei loro corpi avvinti in un interminabile amplesso. Passata una settimana la storia si era ripetuta. Complice, quella volta, una cenetta al lume di candela consumata in sala da pranzo e culminata con un dessert speciale, una notte di passione senza precedenti, unica. Baciandolo all’alba con trasporto prima di salutarlo Lina aveva benedetto quell’elisir portentoso che così accortamente proteggeva e dava consistenza al suo legame con Tonio, restando per tutto il giorno in uno stato di beatitudine pura sino a quando Manuela, la ragazza che l’aiutava nelle faccende, non le aveva narrato con tono malizioso dell’incontro a mezzogiorno tra il suo spasimante e la maestrina al Caffè Centrale in piazza. Lina si era sentita morire vedendo crollare d’un tratto tutte le sue più rosee aspettative. E dire che la sera prima aveva versato una dose generosa di filtro nel caffè e nel bicchierino di ratafìa servitigli a fine pasto. Si era crogiolata nella malinconia di quel pensiero sino a quando non era dovuta correre in strada per riacciuffare la zzia, sfuggita al suo controllo e a quello di Manuela; l’avevano ritrovata imbellettata di tutto punto, cappellino con veletta in testa, in estatica contemplazione della vetrina del macellaio. Un po’ con le buone e un po’ con le cattive erano riuscite a ricondurre a casa la fuggitiva seppur con notevole ritrosia e brontolii, punendola con una cena a base di verdure e frutta cotta senza il conforto finale delle sue amate geleè; del resto il medico condotto aveva raccomandato di tenerla a regime per evitare spiacevoli complicanze prescrivendole un blando lassativo che la potesse all’uopo aiutare. Tenerla d’occhio le costava una buona dose di energie; bastava che lei voltasse lo sguardo ed ecco che l’anziana sembrava volatilizzarsi, abbondantemente cosparsa di cipria e profumo e un accenno di eleganza dato da un colletto di merletto ingiallito o vecchie collane dalle perle sgranate e opacizzate, in indolente passeggio per il corso principale del paese accompagnata dall’ironia dei compaesani che incrociava.

Uno scampanellio discreto riaccese la sua speranza. Con circospezione aprì nella calura estiva e soffocante il pesante portoncino di legno intagliato quel tanto che bastava per far entrare il suo uomo. Quel pomeriggio il pranzo fu messo da parte per passare senza troppi preamboli ad altro, l’atmosfera bollente esterna solo di poco superata dalla calorosità di quella della camera da letto padronale.

Con intima soddisfazione Lina poggiò il vassoio con le tazzine fumanti sul comodino, porgendo a Tonio il suo caffè e apprestandosi anch’ella a berlo in sua compagnia.

L’uomo la prese con prepotenza per un fianco tirandosela contro.

-Allora, Linuzza, che ne dici di conoscere mammà questa domenica pomeriggio?

Lei si strozzò quasi alla disinvoltura di quell’annuncio che oramai disperava di sentire in concreto oltre che nella seraficità dei suoi sogni più audaci.

-Vita mia, dici davvero?

Tonio aspirò una boccata della sua sigaretta e annuì solennemente.

-E quando mai, bocconcino, ti ho raccontato una faccenda per un’altra? Cosa fatta è.

La vedovella l’abbracciò con foga quasi a soffocarlo rischiando di bruciarsi seriamente con la brace del mozzicone acceso che gli penzolava ancora tra le labbra, coprendogli grata di baci radi il viso, il collo e finanche i baffi. Con quel caffè aveva voluto tentare il tutto e per tutto, versandovi dentro ciò che rimaneva dell’intruglio misterioso di Assunta. Ma il suo trionfo durò davvero poco; dopo qualche attimo Tonio era davanti a lei, piegato in due, a contorcersi per i forti dolori addominali che avvertiva, annunciandole a gran voce di aver necessità di andare in bagno, madido di sudore e pallidissimo in volto.

Incurante del parapiglia di sottofondo la nonnina, vestita di seta malva e ben profumata, sgattaiolò al pianterreno, precipitandosi rapida in strada per sedersi con sguardo adorante su un gradino di fronte all’entrata del negozio di Turi il macellaio in attesa che questi riaprisse i battenti per la vendita serale. Con voluttà si concesse l’ennesima geleè, conservando l’ultima che le restava per l’uomo che popolava da tempo le sue visioni oniriche femminili notturne e diurne.

Manuela sospirò piano pensando agli avvenimenti di quella giornata dall’epilogo imprevedibile e funesto: l’arrivo del dottore, accorso in fretta per visitare don Tonio colpito da una diarrea senza precedenti e la sua padrona in preda a una crisi di nervi che brandiva due boccette scure identiche completamente vuote, farneticando di purghe e di elisir. Zzia Malù avvinghiata a Turi u carnezziere su tutte le furie per essersela ritrovata ancora una volta in negozio a spasimare d’amore per lui. E poi, infine, Donna Carmela che prelevava suo figlio più morto che vivo con aria sdegnata e sprezzante, gridando a gran voce vendetta. Nuddu ci capiu chiù nenti, a schifiu finiu. Curpa ro cauru, sicuru.

La calura eccessiva, era risaputo, talvolta giocava bruttissimi scherzi.*

“Curpa ro cauru” in A.A.V.V., “Socc’mel che sfiga”, Modena, Edizioni del Loggione, 2020

Lucia Guida

 

 

Mariano Fortuny y Mandrazo, “Nudo di donna”, particolare, 1944

Le scritture ‘a progetto’: Racconti d’Autore

Quale cosa migliore celebrare il 23 aprile la Giornata Mondale del Libro con la pubblicazione di un ebook di racconti, i ‘Racconti d’Autore’, ambientati e dedicati ad alcune strutture alberghiere italiane aderenti al circuito dei Golden Book Hotels? A disposizione degli ospiti per un intero anno?

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Dalla ‘mission’ del portale ‘Ready to Read’:

‘Ready to Read’ – applicato ai progetti Hotel Stories e Wine Stories – è un nuovo e originale sistema di offerta di lettura d’Autore breve e dinamica, messo a disposizione degli ospiti e clienti di Alberghi e Aziende vitivinicole aderenti ai due progetti.

Essi troveranno – nelle camere o nelle confezioni di vini, nelle hall o nelle sale degustazioni – un elegante cartoncino contenente l’incipit in italiano e inglese (ma all’occorrenza in qualsiasi lingua) di un breve racconto d’Autore, realizzato ‘su misura’ nella forma e nei contenuti per la struttura ospitante.

La conclusione della lettura sarà reindirizzata su dispositivo mobile (smartphone, tablet, notebook) a mezzo del QR Code o del link esteso da copiare evidenziati sul cartoncino stesso.

La lettura sarà interattiva e consentirà di accedere facilmente a ogni contenuto accessorio utile per conoscere in profondità la realtà dell’azienda, la sua storia e la sua identità, i suoi servizi e i suoi prodotti.

(…)

Quest’anno tra gli autori selezionati ci sono anch’io; rappresenterò una dimora d’epoca, ‘Villa La Meridiana’, sita in Santa Maria di Leuca (LE), suggestivo crocevia tra oriente e occidente.
Se ne avete piacere venite a leggere i  nostri contributi. Il mio parla di colpi di fortuna, quei coups de chance che permetteranno a Fiorenza, protagonista femminile della mia storia, di fare chiarezza nella propria vita e scegliere con la massima libertà al meglio.
Perché la Fortuna è qualcosa che ci costruiamo in base a felici intuizioni, certamente, ma anche grazie alla concretezza delle nostre azioni.

A presto

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Il pdf dell’ebook completo è qui

 

Storie di città – Tra cielo, mare e fiume

Tratteggiare in poche righe un angolo della città in cui riesci a riconoscerti può sembrare cosa apparentemente facile ma non lo è. Non sempre. Soprattutto se la città di cui vuoi descrivere una sfumatura non ti ha vista nascere ma si è comunque premurata di accoglierti con disponibilità.
In questo breve racconto provo a parlare ancora di Pescara, mio attuale luogo di residenza. Lo faccio nell’unico modo di cui sono capace. E la mia veloce sosta sul ‘Ponte del mare’ finisce col diventare un bel pretesto per ragionare, com’è di solito per me, in punta di cuore.
Buona lettura

A presto

Lucia

Tra cielo, mare e fiume*

Sono sospesa tra cielo e fiume.

Davanti a me la città che pulsa con le sue mille contraddizioni, le sue belle vetrine e i luoghi nascosti che faticano a svelarsi a chi non ha occhi attenti per coglierli.

Alle mie spalle c’è il mare, ora colto in un momento di quiete, dall’aspetto rasserenante come i colori che a quest’ora del crepuscolo lo caratterizzano.

La brezza scompiglia i miei capelli per ricordarmi che anche in un attimo di tranquillità siamo tutti soggetti alle leggi del mondo e alle sue bizzarrie.

Sono al centro di un universo che, al momento, non ha confini se non la mia capacità di dare libero sfogo ai miei pensieri.

Eppure non ho voglia di impegnare la mia mente in cose complicate. Il mio desiderio è quello di perdere il mio sguardo in questa immensità di acqua che cerca di abbracciare il cielo.
Poggiata al parapetto con entrambi i gomiti come da bambina quando, con attenzione, cercavo di cogliere ogni sillaba delle storie narrate da mia nonna, scruto l’acqua di fiume che lentamente scorre verso il mare, riflettendo la luce e i colori di questo tramonto miracoloso, felice epilogo di una giornata di sole incastonata tra giornate di pioggia silente, rassegnata, ottobrina.

Il fiume porta con sé rami spezzati rubati alla vegetazione e alle sponde che lo contengono. Lo fa con autorevolezza e con una pacatezza disarmante per riaffermare il suo pieno diritto a esistere, sia pure tra  le mille contraddizioni e i limiti a lui imposti dall’uomo.
Si trascina verso il mare a voler sottolineare che tutto va come deve andare, portando, però, sulla sua superficie un pezzo di cielo riflesso per segnalare che una possibilità di salvezza c’è sempre, basta saperla cogliere.
Il mare è lì ad attendere l’acqua di fiume che avanza senza sosta per un ultimo  abbraccio totale, coinvolgente.

Non esisterà più differenza tra dolce e salato, colore e consistenza si uniformeranno nella buona e nella cattiva sorte in un’unica grande onda grigio-azzurra verso l’indefinito.

I passanti si avvicendano l’un l’altro per scendere o salire, incrociandosi a poca distanza dal mio punto di osservazione. Lo fanno in silenzio, solcando a passi composti questo Ponte del Mare che è punto di unione tra due rive differenti. Rappresenta con sapienza il futuro con la sua voglia di fare e le sue grandi incognite, le delusioni sottili e la sorpresa gioiosa fatta di piccoli gesti di generosità e gentilezza gratuite.
Non ci sono ombre capaci di fugare la dolcezza di questo momento di sospensione temporale.
C’è solo la consapevolezza di appartenere al qui e all’ora, con l’entusiasmo di vivere ogni singolo soffio di vita come istante irripetibile e prezioso.

Qualsiasi cosa accada.

Oggi e per sempre.

Lucia Guida

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Pescara, Ponte del mare. Foto di Guerino Di Francesco

*L’articolo originale lo trovi qui

N.B. Storie di città è un progetto di scrittura in web. Visita la pagina per saperne di più.

The Jazz Singer

Assistere a un concerto jazz della mia città e poi, partendo da suggestioni ed evocazioni melodiche, scrivere un racconto breve come il tempo di un respiro.

Buona lettura

 

A presto

 

 

The Jazz Singer

 

Katarzyna finì di truccarsi con cura alla smokey eyes.

Si ripeté che in quel camerino d’epoca, dalle pareti scrostate in più punti, era passato il gotha della musica contemporanea quasi a riconciliarsi con un presente che non la faceva star bene. Un orologio da muro profilato d’acciaio con il quadrante ingiallito scandiva il tempo, rassicurandola sulla possibilità di avere ancora tre quarti d’ora a disposizione prima della sua performance

 

Someday he’ll come along, The man I love
And he’ll be big and strong, The man I love
And when he comes my way
I’ll do my best to make him stay

 

A fine opera tornò a scrutarsi con occhi brillanti, appena velati, accendendosi tremante una sigaretta, mentre lo specchio le rimandava l’immagine di una donna dall’incarnato pallido, cosparso di efelidi leggere. Suo malgrado fu colpita dalla sua magrezza, evidenziata dalle spalline sottili nere della parigina che indossava. Il seno, piccolo e sodo, si intravedeva appena sotto la stoffa dell’indumento leggero. Si ripromise di indossare un reggiseno un po’ più voluminoso, pensando contestualmente a Michele e alla sua voglia di prenderla in giro prima di fare l’amore per quel petto da adolescente acerba da lei esibito senza veli con ingenua e sensuale presunzione in camera da letto.

Michele era il suo amore presente. Quello stesso Michele che l’aveva presa per mano soltanto un paio di mesi fa alla festa seguita a una esibizione dell’ensemble di cui faceva parte come vocalist, per portarla in fretta in una camera d’albergo di periferia prendendola con smania rabbiosa fino all’alba. Pretendendo da lei resa incondizionata e poi, nei giorni a seguire, addirittura amore. E lei glieli aveva elargiti entrambi a piene mani con imprudente leggerezza, concedendosi un’ombra di pentimento al pensiero degli impegni emotivo-sentimentali che lui aveva già: una compagna stretta a sé da un sodalizio affettivo-sentimental-professionale da cui difficilmente si sarebbe liberato. Ma, poi, lui ne aveva davvero voglia? Lei non avrebbe saputo dirlo, né avrebbe trovato coraggio sufficiente per chiederglielo negli attimi a lei concessi rubati alle sue tournée e alla sua vita di musicista famoso.

He’ll look at me and smile, I’ll understand
Then in a little while, He’ll take my hand
And though it seems absurd
I know we both won’t say a word

Schiacciando con mano tremante quello che restava di una sigaretta fumata con avidità in un portacenere sbreccato, abbandonato sulla toeletta da chissà chi, decise di alleggerire con un pennellino sottile il trucco agli occhi. A un certo punto le era parso troppo pesante e carico, conferendole un’aria drammatica da Pierrette che aveva voglia di dissimulare in qualche modo. Poi controllò febbrile il display del cellulare tenuto a soneria bassa tra i trucchi sparsi assieme a campioncini di creme per il viso e profumi griffati. Chiudendo gli occhi risentì la fragranza del dopobarba di lui mista al suo odore di uomo che non aveva avuto il coraggio di spazzar via con un colpo netto sotto la doccia, limitandosi a rivestirsi silenziosamente, facendo attenzione a non svegliarlo e godendo del suo viso appena scurito da un’ombra di barba, prima di infilare come una ladra la porta della camera d’albergo e andare via. Non le era dispiaciuto di trovarsi finalmente all’aperto in quel pomeriggio di primavera che era trionfo di aria leggera e colori brillanti per tutti ma non per lei, prima di incamminarsi a passo lento, quasi dolente, verso l’ingresso posteriore del teatro in cui quella sera si sarebbe esibita. Sperava di incrociarne la presenza, anche soltanto lo sguardo durante lo spettacolo. Avrebbe cantato per lui e lui solo, immolandosi sotto i riflettori per un uomo che la straziava dentro con un amore che era sofferenza pura di cui, paradossalmente, non riusciva a fare a meno.

Cantava sempre per Michele, con la disperazione e la consapevolezza che quel sentimento che le bruciava dentro era destinato ad affievolirsi nel momento in cui la noia avesse preso in Michele il posto della grandeur della novità iniziale. Si sentì vacillare ma attribuì la debolezza e la stanchezza che l’avevano assalita a quelle scarpe altissime che la costringevano ad avanzare in equilibrio precario e che lei aveva indossato per darsi un tono.

Tamponandosi il viso truccato in modo impeccabile decise di cingersi il collo con una sciarpa lunga di seta scarlatta per mascherare l’irruenza del suo amante e, forse, per nascondere a se stessa la pena di quell’amore che non riusciva a mandare via. Poi si pettinò lentamente, con cura, continuando a esaminarsi con occhio critico alla ricerca di una perfezione esteriore che non riusciva a percepire anche dentro di sé. I capelli a caschetto riacquistarono volume e uniformità sotto la sua mano attenta pronta a rimodellare qualsiasi loro intemperanza.  Si alzò dalla toeletta soltanto quando l’immagine che si era prefissa di raggiungere e quella che vedeva davanti a sé combaciarono in modo accettabile. Un goccio di vino rosso versato in un bicchiere appannato dal suo respiro fece il resto.

 

Sul palco gli altri erano già disposti come sempre, in sua attesa paziente e indulgente. Le volevano bene, lei lo sapeva, e questo pensiero aveva il potere di riscaldarle cuore e mente come ore di passione sfrenata, coinvolgente, ricercata non erano più in grado di fare. Katarzyna sorrise ma non con gli occhi, non ne aveva più la forza, prima di prendere slancio e raggiungerli. Era pur sempre una professionista e lo show doveva iniziare senza intralci ed eccessiva emotività.

Maybe I shall meet him Sunday,
Maybe Monday, maybe not
Still I’m sure to meet him one day
Maybe Tuesday will be my good news day

Il pubblico rumoreggiava con discrezione attendendo con calma che i teli rosso cupo del sipario fossero tratti da parte, alternando brandelli di conversazione reale a frasi smozzicate pronunciate virtualmente al cellulare. Assieme ai suoi compagni lei aspettò paziente che la platea si riempisse a dovere per permettere a una mano invisibile di aprire le scene dando inizio al concerto di musica jazz.

He’ll build a little home, That’s meant for two
From which I’ll never roam, Who would, would you

 

Katarzyna scostò per l’ultima volta un lembo della stoffa polverosa che la separava dagli spettatori e il suo cuore perse un battito mentre avvertiva con desolante chiarezza la presenza di due persone, una a lei nota accanto a un’altra a presidio e testimonianza inconfutabile della sua sconfitta palese, tra le prime file di quel teatro di provincia in cui lei aveva accettato di ritornare per un gesto di scaramanzia di cui si era già pentita. Sentì con urgenza il bisogno di bere un altro sorso di vino e maledisse la sua poca lungimiranza per aver lasciato in camerino la costosa bottiglia d’annata di Montepulciano, dono di un suo fan, stappata d’impulso in quel pomeriggio di malinconia per stemperare l’ansia che l’aveva assalita all’idea della fatica fisica e mentale che l’attendeva.

Nulla di nuovo sotto il suo personale cielo oltre a quella ferita che non aveva la forza necessaria di richiudere una volta per sempre con la perizia e l’asetticità di un chirurgo abile a fare a quel lavoro da una vita.

Guardandosi in uno specchio rimediatole da qualcuno all’ultimo momento si appuntò tra i capelli una gardenia bianca attenta a non toccarla troppo per non farla sfiorire prima del tempo, spianando le labbra generose e scarlatte in un sorriso prevedibile, volutamente ostentato. Poi fece un cenno col capo al pianista, comunicandogli di essere pronta. La musica avrebbe fatto il resto, contribuendo ad anestetizzare quello che rimaneva della sua tristezza, aiutandola a pagare un tributo dal prezzo esoso che sarebbe, comunque, stato apprezzato e consacrato da applausi genuini, quelli della gente che era lì per ascoltare lei e il suo ensemble.

And so all else above

I’m dreaming of the man I love

Il silenzio calò in sala nell’attimo in cui il precario ondeggio delle quinte trovò compiutezza nella loro apertura lenta, dissimulata. Molti decisero di immortalare in foto estemporanee di tablet e cellulari il prologo di quel concerto con i suoi protagonisti, stagliati contro lo sfondo minimal del palcoscenico come statue di marmo in un giardino antico pronte ad animarsi e prender vita al minimo cenno.

Nessuno pensò al mondo di fragilità ben nascosto in quella figura di donna esile, vestita di nero mitigato da una sciarpa coloratissima avvolta attorno al collo sottile e una gardenia bianca appuntata tra i capelli corti e lucenti, desiderosa di dare il meglio di sé.

A lei non rimase che stare al gioco e accontentarli.

Decise di dedicare la propria ammissione di impotenza a un destino che aveva bisogno di andare avanti senza che qualcuno potesse fermarlo con una semplice alzata di mano.

Poi sorrise all’immagine lontana e sfocata di Billie Holiday e iniziò a cantare.

 

Lucia Guida

 

                                                                                             20_vettriano

‘Only the Deepest Red’, Jack Vettriano

Il giardino di Marinella

A volte basta poco per sentirsi partecipi della Natura. Per Marinella possedere la sua essenza attraverso i fiori del suo giardino.
Un racconto breve che parla della diversità in termini reali e autentici di valore aggiunto.
Buona lettura

A presto

 

Il giardino di Marinella

Marinella coglie un fiore e poi lo annusa; è un narciso selvatico, piccolo e delicato. In paese è usanza andare a coglierli nel bosco a Pasquetta, a frotte, per venderli agli angoli di strada a qualche forestiero arrivato lì per caso, in transito prima di raggiungere il borgo del frate cappuccino santo.

Lei non ha mai fatto parte del gruppo di ragazzotti schiamazzanti che, a piedi, s’inerpicano per la montagna, violando pascoli centenari alla ricerca dei sucamele, fiori che, a reciderne la corolla di netto, lasciano colare in bocca stille dolcissime di nettare divino. A Marinella non piace condannarli a morte repentina; preferisce coglierli con garbo nel terreno incolto della Forestale e poi metterli ordinatamente in una vecchia brocca a occhieggiare in cucina o nel tinello perché possano spandere la loro fragranza dolce per l’aria circostante.

In quella brocca antica, piena di crepe, in cui due contadinelle si contendono la scena, coi i loro canestri e i loro sorrisi persi in chissà quale universo lontano, trovano posto fiori d’ogni tipo a seconda della stagione. Le più penalizzate sono certamente le orchidee selvatiche, meraviglie della natura in miniatura. Tentano disperatamente di mantenersi a galla, annaspando tra fiori di campo forse meno rari ma di sicuro più sfrontati, in grado di sovrastarle. Il gambo esile non permette loro di emergere e questi fiori così esotici, per uno scherzo della natura sbocciati sulla terra arida di montagne avare, devono davvero a caro prezzo contendersi l’attenzione dei visitatori di quella casetta arrampicata, come tutto il resto intorno, sulla fiancata della roccia.

La primavera è anche il tempo degli iris azzurri e gialli dai petali setosi. Un delitto accarezzarli troppo. Si rischia di infastidirli e di condannarli a un veloce oblio. Marinella si è chiesta più volte se sia davvero il caso di cogliere tutta quest’opulenza fiorita o se, invece, sia preferibile lasciarla a dimora nella terra umida e bruna quando è la pioggia a irrigarla e a renderla soffice al passo.  Ne ha concluso che, forse, ai fiori piace essere coccolati dal suo sguardo amorevole piuttosto che affievolirsi lentamente sotto aria, sole, vento implacabili e rudi come i luoghi che li accolgono.

Un altro fiore che adora è il croco, violetto col suo cuore di fuoco. E’ una gioia leggera vederlo spuntare dal terreno ancora ricoperto di neve. Segna con brio e un pizzico di voluttà il passaggio dall’attimo di transizione invernale, fatto di silenzio, uniformità e riflessione, a quello di ripresa lenta ma efficace verso la bella stagione, i giorni luminosi e l’aria più mite. Il croco ha vita brevissima che lei cerca di procrastinare poggiandolo, appena divelto con amorevolezza, sul palmo di una mano. Poi lo lascia navigare sulla superficie ridotta di una tazza da tè scompagnata, poggiata sul comò della sua camera da ragazza di un tempo, tra una spazzola dall’impugnatura di osso, una boccetta di profumo con lo spruzzatore a pompetta e una madonnina sottile vestita di azzurro dallo sguardo mesto rivolto verso il basso.

Marinella non ama discriminare i suoi fiori.

Anche un comune bocciolo di tarassaco o un anemone selvatico giallo o celestino possono entrare a far parte dei suoi ricchi bottini floreali colorando le stanze della sua quotidianità. A volte il suo entusiasmo si manifesta colmando di natura odorosa anche le tasche del grembiulone confezionatole da sua madre, ora informe e di uno sbiadito rosa, sempre pronto a coprire la maglietta e la gonna regolamentari che le fanno assumere l’aria un po’ buffa e fané di una bimba d’epoca camuffata da donna, i capelli castani inframezzati da fili argentati e tagliati corti, alla spalla, lisci come fili d’erba in attesa di essere piegati da un refolo di vento indulgente.

Il grembiule le serve per non sporcarsi di terra, cosa che capita in realtà assai di rado; procurandole, per contro, la soddisfazione di sapere sempre di aria buona e pulita, di campagna e di sole, fiore tra i fiori ricercati con certosina pazienza e poi collezionati in ogni contenitore possano essere infilati. Rimpiazzati di continuo, al minimo segno di tempo che scorre, da altra natura fresca, viva, vitale. Come la luce che le fluisce dallo sguardo color ambra, da tigre ridotta in cattività e tuttavia mai irreggimentata in uno stile di vita scontato: quello dei clienti dell’unico bar del borgo, attratti lì dalla frescura estiva ma pronti a ripartire alle prime foglie d’autunno, al vento implacabile e alle rigide temperature invernali.

Qualcuno sorride nel vederla passare ma soltanto perché vuol vedere ciò che ha deciso di vedere. A lui Marinella non regalerà mai un fiore, né prenderà con impeto la mano per chiedergli silenziosamente di accarezzare una corolla di velluto dal mazzolino che conserva gelosa in tasca. I suoi pensieri migliori, le sue primizie in fiore sono tutte per la bimba che le ha offerto una caramella all’anice, succosa e dolcissima, e che non ha avuto paura di cogliere il suo invito muto per affondare la manina nei tesori frutto del suo duro lavoro di raccolta giornaliera.

Oggi il cielo è grigio e l’aria sa di pioggia.

Marinella guarda seria il paesaggio uniforme che ha davanti ma non è triste al pensiero che dovrà fare a meno della sua passeggiata nei campi perché sua madre non vuole che si bagni, potrebbe anche ammalarsi. Sa che nella sua vita ci saranno tante altre giornate colorate di vento e di sole nell’aria frizzantina di aprile. Tanto le basta.

Sorride piano mentre accudisce tenera i fiori colti il giorno prima. Sa che il suo amore e un po’ d’acqua fresca faranno il resto, aiutandoli a sopravvivere e a farle da contrappunto per un altro po’. Fino al prossimo volo nella natura, fino al prossimo amorevole e paziente viaggio.

Poi guarda con stupore rinnovato le gocce argentine di pioggia che rigano i vetri, battendo sulle tegole del tetto per tenerle compagnia come amiche sincere, presenti al bisogno ma pronte ad andar via alla prima schiarita, ritmando la sua felicità dell’oggi con semplicità e sincerità.

Lucia Guida

 

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Silvia Martignago, ‘Fiori selvatici’

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Un lavoro che sfuma via e un figlio inatteso che preme per nascere sono le novità piombate all’improvviso nella routine di Giulio e Maura, sconvolgendo la loro vita di coppia consolidata. Dopo un periodo di comprensibile disorientamento entrambi sapranno trasformare questo terremoto esistenziale in una concreta opportunità di crescita. Assieme a una felicità da centellinare poco a poco e, forse, per questo, molto più intensa da assaporare.

Buona lettura e buon ferragosto

A presto

Briciole di precaria e ordinaria felicità

Giulio respirò a fondo nell’aria frizzantina di primo mattino guardando gli altri pendolari sparpagliati sotto la pensilina che li accoglieva. Incrociare ogni giorno le loro occhiate, durante l’attesa di quella corsa bis extraurbana che li avrebbe portati al lavoro, lo faceva sentire stranamente in compagnia e pervaso da una forza maggiore.

Immerso in una sorta di amarcord dal sapore agrodolce rammentò come appena un anno fa avesse concesso un’attenzione davvero marginale alle indiscrezioni delle segretarie di direzione, tiratissime in pausa caffè, su possibili tagli in ditta. Una trascuratezza, la sua, ampiamente giustificata dalla notizia di un figlio in arrivo.

Maura, la sua compagna, gli aveva detto del lieto evento una sera come tante mentre erano davanti alla portafinestra della loro mansarda, aperta su un cielo illuminato da una luna ruffiana che gli era rimasta impressa dentro. Prima di sussurrargli la novità con voce sbarazzina l’aveva guardato con occhi brillanti ma ciò non aveva impedito che gli mancasse un battito. Scoprire che a breve sarebbe diventato padre, prospettiva sino a quell’istante considerata  piuttosto remota, l’aveva del tutto e irrimediabilmente spiazzato. Stretto a lei aveva contrabbandato vigliaccamente lo smarrimento della propria voce per genuina commozione passando il resto della notte ad ascoltare il respiro regolare della sua donna, già madre conclamata di quel bimbo in viaggio, per lui, invece, immagine ancora così indefinita.

Poi le cose erano precipitate in un attimo.

La sua azienda, apparentemente in ottima salute, si era decisa a delocalizzare, trasferendo la produzione oltremare e smantellando anche gli uffici amministrativi in cui Giulio lavorava dai tempi del diploma. L’aveva riferito di getto a Maura non appena aveva saputo, interrompendola nella vivace descrizione del suo primo sopralluogo in un negozio di articoli di prima infanzia. Lei aveva socchiuso gli occhi, come per proteggerli da una folata traditrice di vento, poi li aveva riaperti sorridendogli incoraggiante. Quella notte avevano fatto l’amore con fantasia e generosità, lo sguardo dell’una avvinghiato a quello dell’altro come ai primi tempi della loro storia. Addormentandosi quasi all’unisono, stremati dalla passione.

L’ultimo mese di lavoro di Giulio era passato in fretta ed erano arrivati alla prima ecografia del bambino. Vedere quel puntino luminoso pulsare già con tanta vitalità gli aveva fatto lo stesso effetto di un giro sulle montagne russe da ragazzo. Aveva ascoltato con attenzione le parole dell’ecografista prestandosi, più tardi, a casa dei genitori di lei, agli sguardi emozionati e alle congratulazioni di tutti, alle pacche di approvazione di suo cognato e alla pianificazione complice del loro matrimonio da parte delle donne di famiglia. Rientrato a casa aveva deciso di concedersi in solitudine l’ultima sigaretta della giornata sul minuscolo terrazzo, incurante del freddo penetrante di quella città di mare così umida e gelida d’inverno.

«Ce la faremo», erano state le uniche parole di lei prima di abbracciarlo e baciarlo su una guancia, piombando poi velocemente nel sonno e lasciandolo ai suoi tanti pensieri.

Il pomeriggio successivo l’aveva trovata a contemplare assorta la sottile striscia di mare grigiazzurro dalla finestra.

«Tutto bene?». Alla sua voce lei era trasalita come una bimba nel pieno di una marachella, annuendo subito dopo con un sorriso senza guardarlo. A poca distanza, in uno scatolone, c’era un bel po’ di roba che aveva tutta l’aria di essere stata cestinata da poco. Maura l’aveva trascinato sul divano chiedendogli con nonchalance di quel rientro anticipato. Si era stretto nelle spalle e aveva risposto che oramai in ufficio non c’era più molto da fare. Allora lei l’aveva finalmente fissato, gli occhi castani appena coperti da un velo in cui lui era riuscito a scorgere fragilità e forza assieme che gli avevano smosso qualcosa dentro. Con tono allegro le aveva proposto una camminata sulla battigia, il viso di entrambi sferzato dalla brezza marina, avvolti dal calore mite dei raggi di sole di novembre.

A casa, mentre lei era sotto la doccia, si era ricordato del cestino cedendo alla tentazione di ispezionarlo velocemente, scoprendovi, accartocciati, campioni di partecipazioni nuziali, un menu del ristorante in cui l’aveva portata al loro primo appuntamento e il modello di un abito da sposa molto romantico che aveva tutta l’aria di essere troppo costoso. Mentre cenavano davanti alla TV, dividendosi tranci di pizza e facendo zapping tra un telefilm e un talk show, lei aveva ricevuto la telefonata di sua madre e, con una smorfia, s’era portata in bagno il cordless per risponderle. In principio lui l’aveva sentita discutere a lungo con foga; poi, silenzio assoluto. Con occhi fiammeggianti e appena un cenno di insofferenza   gli si era nuovamente accoccolata accanto e lui aveva, per quella sera, deciso di glissare sui tanti perché che gli ronzavano dentro, simulando un’indifferenza che non provava e che gli aveva lasciato in bocca un retrogusto fatto d’inquietudine.

L’indomani a pranzo sua suocera l’aveva squadrato in tralice ma non aveva osato dire nulla. Ci aveva pensato suo cognato a illuminarlo col suo solito fare sbrigativo e schietto.

«Allora, un brindisi al Caffé Excelsior e una cerimonia in Comune per pochi intimi mi pare ‘na figata …», aveva esordito tra un caffè e una sigaretta in punta di dita.

«… e chi se lo dimentica il nostro pranzo di nozze, cinque ore di durata, scambio di convenevoli e danze incluse. ‘Na maratona»

Giulio l’aveva ascoltato con ostentata noncuranza senza tentare di replicare, decidendo di stare al gioco.

«Cosa confabulate voi due?» aveva voluto sapere Maura, intromettendosi; e, senza attendere risposta, l’aveva preso per mano e portato via con sé.

In auto lui aveva ripreso l’argomento mentre lei si osservava critica in uno specchio da borsetta.

«Allora, pare che ci sposiamo in Comune e non più in chiesa».

Lei aveva richiuso di scatto lo specchietto.

«Geniale, vero? Pensa a quanto stress ci eviteremo».

«E tua madre che ne dice?» l’aveva solleticata lui con una punta di malizia.

«… proprio nulla. E’ il nostro matrimonio o sbaglio? »

Lui aveva silenziosamente annuito. A quanto pareva la decisione era stata presa e, a mente fredda, gli pareva l’unica possibile, viste le circostanze. Un neonato in viaggio e il lavoro part-time di lei, al momento loro unica fonte di sussistenza, non erano uno scherzo. Quella notte, tuttavia, l’aveva sentita agitarsi parecchio, trattenendosi a stento dallo svegliarla per riportarla a una realtà più benevola. A un certo punto gli era addirittura parso di sentire mormorare il proprio nome e ciò gli aveva procurato una botta d’insonnia senza precedenti che l’aveva condotto insofferente alle prime luci dell’alba. Aiutandolo, tuttavia, a partorire un’idea nuova.

«Buondì!»

Maura aveva atteso pazientemente che lui aprisse gli occhi. Quel giorno per lei c’era l’allettante prospettiva di una mattinata libera con riapertura nel pomeriggio della caffetteria in cui lavorava. Per lui, invece, tanta libertà era conquista amara e recente a seguito della perdita del lavoro. Con dolcezza gli aveva accarezzato con le dita quell’ombra di barba traditrice che gli era spuntata nottetempo e che le piaceva sempre da matti.

Appagato, Giulio aveva poggiato nuovamente la testa sul cuscino prima di rialzarla di scatto, colto da un moto repentino. C’erano un paio di cose da sistemare che non potevano essere rimandate.

Vestito di tutto punto aveva finito in un attimo il suo caffè, pescato un biscotto al cioccolato da una scatola di latta, prima di baciarla e infilare la porta di casa.

«A dopo», l’aveva salutata laconico, strizzando un occhio.

Maura l’aveva guardato perplessa, riflettendo sugli sbalzi d’umore dei futuri padri, che nulla avevano da invidiare a quelli delle loro compagne.

Ringraziando mentalmente di cuore un amico che gli aveva fatto sapere di quell’offerta di lavoro da magazziniere appena accettata, Giulio si era toccato la tasca interna della giacca per assicurarsi che conteneva ancora l’assegno con l’anticipo richiesto al suo nuovo datore di lavoro con una formidabile faccia tosta. Quasi uno stipendio. Poi si era fermato davanti a una gioielleria scrutandone con serietà la vetrina, prima di entrare e uscirne dopo parecchio con un pacchetto minuscolo tra le dita.

Il Caffè delle rose era ancora chiuso al pubblico ma lui era passato dal retro com’era consuetudine per lo staff. Maura era nell’ufficetto di fianco al laboratorio intenta a visionare un file di contabilità, l’uniforme a righine che le tirava sul seno e sulla pancia arrotondata, già pronta a montare di servizio in cassa.

«Ma cosa …»

Lui l’aveva guardata con espressione strana, poi le aveva spinto sulla tastiera la scatolina confezionata con cura.

«Per te. Forse questa è l’unica cosa di valore che ti regalerò. Niente rispetto a quello che tu, che voi, significate per me»

Una perla minuscola, luminosa, incastonata in un cerchietto dorato sottile.

Maura l’aveva tenuta sul palmo della mano senza avere il coraggio di infilarla al dito. Ci aveva pensato a farlo lui con determinazione, con una sorta di amore rabbioso.

«Ti amo. E voglio te e il bambino» le aveva poi detto, con altrettanta foga e un accenno impercettibile e autentico di tenerezza. Allora lei gli aveva afferrato il viso d’impulso, baciandolo con avidità, quasi con sfida. Di quelle briciole di felicità precaria aveva voglia di gustare anche la più infinitesimale a partire da quell’istante unico e perfetto, stabilì.

Dio solo sapeva per quanto tempo ancora avrebbero vissuto in quel paradiso in bilico che era la loro vita dell’oggi. E tuttavia le boccate d’ossigeno di quell’amore sincero sarebbero state per loro sacrosante per vivere e persino per sognare, come l’aria pura del vento di tramontana respirata ogni mattina sul terrazzo della loro casetta di periferia. Sarebbe stata quella voglia d’infinito che li legava così stretti il loro personale tetto del mondo. Un trampolino di lancio da cui spiccare il volo verso l’alto, in un cielo terso e azzurro senza sorprese,  incredibilmente pieno di speranza, oltre le nuvole.

Lucia Guida

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               “Separazione”, dipinto di E. Munch

In fondo al mare

Nell’attesa che la questione dei cookies di profilazione venga chiarita anche per quei blog che, come questo, non dovrebbero utilizzarne, volevo postare uno dei miei racconti scritto a progetto per un concorso letterario ma non per questo meno sentito.
Si intitola “In fondo al mare” ed è la storia di  Samia Yusuf Omar, atleta somala (aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008) annegata a Lampedusa nel 2012 tentando di raggiungere prospettive di vita migliori e la possibilità di poter partecipare anche alle Olimpiadi di Londra.
Una storia emblematica e tragica che ce ne riporta alla memoria tantissime altre a noi vicine: le vicissitudini dei molti italiani emigrati alla fine del XIX secolo e per buona parte del XX. Partiti alla ricerca di un’esistenza diversa, più umana ben al di là della mera concretizzazione di un sogno.
Buona lettura e a presto
Lucia

In fondo al mare*

Ho sempre amato il mare, con quell’idea di immenso e di apertura racchiusi in una promessa grigioverde.

L’ho intravisto a occhi chiusi nelle mie notti silenziose trascorse a Bondere, respingendo la polvere sottile e penetrante che la brezza solleva dalla strada, respirata assieme alla frescura e alla speranza di un’alba finalmente luminosa, beneaugurante.

Mi sono immaginata a riva, in piedi sulla battigia, ad aspettare con pazienza un barcone dal colore indefinito, prima che si riempia di noi migranti e dei nostri fardelli pesanti, scomodi. Dei nostri poveri abiti a coprire corpi affastellati gli uni agli altri in una bizzarra composizione cromatica in cui, quasi per caso, si mescolano sfumature pacate a colori brillanti.
Su un carretta del mare non c’è posto per molti oggetti.

A mala pena ci è permesso di portare un sogno ciascuno. Io ne ho uno speciale. Tendere il mio corpo esile e aggraziato in avanti, scattando dopo il segnale di partenza con la determinazione e l’agilità di una gazzella: finalmente verso la libertà e la possibilità concreta di sperare in qualcosa di bello senza dovermi guardare dalla paura di non farcela per la disapprovazione e il disprezzo della mia gente.

Per molti io sono soltanto una donna e le mie braccia tese nello sforzo di far bene, controbilanciando con sapienza e perizia la forza di gravità del mio corpo esile in corsa, potranno semplicemente stringersi a un uomo durante l’amore o serrare a sé un bambino per allattarlo.

Io voglio di più.

Voglio sfinirmi nella durezza di un allenamento quotidiano mettendomi alla prova per potercela fare, lo desidero per me stessa e per tutti quelli che hanno creduto in me. Per l’amore e l’affetto di coloro che mi hanno sempre sostenuta e che ora non ci sono più, e anche per quelli a cui è mancata la forza e la volontà di lottare, e che pure mi hanno incitata, con le loro ultime parole, ad andare via.

Verso un nonluogo, una terra promessa che non oso immaginare e che non sarà mai la casa che mi ha vista nascere e combattere sin dal mio primo vagito ma che spero potrà accogliermi con sufficiente benevolenza. Da principio, forse, con curiosità silenziosa, poi con crescente rispetto per la mia volontà di riscatto. Mia e di tutte quelle donne che hanno pensato di non farcela, smettendo di interrare un desiderio possibile nell’arida sabbia del deserto e di attenderne il minuscolo germoglio verde, primo passo verso una vita finalmente degna di essere vissuta.

Il dondolio di questo barcone stipato di gente e di sospiri appena accennati mi stordisce piano.

Sono stanca e cerco di recuperare le poche forze che mi restano pensando a qualcosa di bello dopo un tragitto lunghissimo attraverso Etiopia, Sudan e Libia: un ricordo d’amore lontano intriso di sensualità e passione; il viso di mio padre, mio primo mentore; la felicità che proverò quando riabbraccerò mia sorella. Con lei potrò parlare ancora fino a notte tarda e tirare l’alba intessendo progetti e ridendo al pensiero di momenti lontani fatti di piccole gioie ricavate con esercizio paziente di positività. Riunite finalmente per volontà di Allah e per nostra determinazione terrena.

Il cielo è ancora indefinito e non sa dare risposte. A lui si sostituisce la protervia dell’uomo, sempre pronta a fornirle.

Nelle acque di questo paese, l’Italia, prima porta verso una riconquistata dignità, ci intimano l’alt. Non vogliono farci sbarcare ma la carretta del mare che ci ha accolti non ha più forza per trattenerci, stentando a navigare dopo gli innumerevoli viaggi sostenuti.

Anch’io mi sento stanca e non ho alternative a cui pensare. Socchiudo gli occhi, appannati e indeboliti dalla salsedine di giorni e giorni di navigazione, cercando di focalizzare con tutta me stessa la sagoma scura, all’apparenza così vicina, dell’isola di Lampedusa, fantasticando che sia una specie di striscione di “arrivo” di una competizione ben lontana dall’essere terminata, tentata con la forza della disperazione.

E’ il momento di agire e mi costringo a tornare vigile. Attorno a me molti hanno smesso di lottare, facendo calare sui volti impassibili, già martoriati da ogni tipo di sofferenza materiale e psichica, una maschera silenziosa di indifferenza.

Ora so cosa fare.

Inspiro profondamente prima di tentare il rush finale. Poi mi getto in acqua.

La prima sensazione è di gelo infinito, paralizzante, che mi toglie il fiato. Cerco di concentrarmi come in una delle tante gare sull’attimo presente, scacciando via qualsiasi cosa possa fungere da zavorra. Ho bisogno di tutta me stessa per farcela e so che stavolta non avrò grida amorevoli d’incoraggiamento a sostenermi.

Il cielo è sereno ma non riesco a scommettere sulla sua sincerità.

Decido di puntare tutto su un capo di fune sottile ma robusta che un marinaio giovane e compassionevole ha lanciato da un peschereccio verso di me a pochi metri. Non mangio da tre giorni e l’ultima goccia d’acqua assaporata è stata il regalo di ieri di un vecchio rugoso che non ha voluto lasciare il ponte dell’imbarcazione, stringendosi al parapetto scrostato per scrutare noi temerari. Nuoto con lentezza, consapevole delle forze che mi stanno abbandonando e per la concentrazione che metto in quest’ultimo gesto. Il polpaccio destro comincia a farmi male, l’acqua fredda la fa da padrone sull’agilità e sulla prontezza dei miei movimenti. Decido di fermarmi per un solo istante. Un solo attimo, un solo respiro, una sola memoria, una sola parola.
Nel mio cuore affaticato c’è ancora tanto sole; non abbastanza, tuttavia, per avere il sopravvento sul mio corpo affranto.

A un passo da me quella corda intrisa d’acqua salmastra sta cominciando ad affondare. Mi tendo in avanti come per spiccare il volo ma non è abbastanza per afferrarla, non ce la faccio.

Il mio braccio proteso verso l’alto è un ramo scarno di un’acacia nelle strade della mia Mogadiscio: sottile e affusolato, slanciato verso il cielo.

Nello stato di gran quiete in cui sono precipitata riesco ancora a percepire il grido dapprima deciso, poi stranito e quasi disperato del mio salvatore italiano che non vuol smettere di puntare sulla mia vita. L’acqua del mare che ora mi avvolge per intero trattenendomi a sé ha lo stesso sapore salato delle lacrime che gli sono spuntate. Con uno sforzo incredibile decido di sorridere. Di dedicargli l’ultimo guizzo felice che mi resta. In fondo se lo merita, ha creduto in me e nella mia voglia di vivere, scommettendo sino all’ultimo istante sulla mia fragile salvezza.

In alto il sole ha deciso alla fine di spuntare.

Sarà una giornata mite e gloriosa per molti ma non per me.

Priva di energia scivolo con dolcezza in fondo al mare, perdendomi nel suo verde intenso sfumato di blu. A occhi aperti cerco di vincere l’oscurità che mi assale, guardando verso l’alto, verso l’ultimo raggio di luce che non è riuscito a trattenermi. So di essere al capolinea, ne sono spaventata ma avverto anche un senso di liberazione, una sorta di pacata rassegnazione

Questa terra che non mi ha voluta sarà il mio ultimo scrigno.

Nel silenzio ovattato che ora mi circonda mi sembra di udire ancora il dispiacere autentico di quell’uomo di mare giovane dal cuore palpitante come unica forma di riscatto e tardivo atto d’amore per me. A lui va la mia ultima benedizione.

Ti libero dal mio ricordo e dalla mia immagine, dal mio carico di frutti ingombranti e troppo preziosi. Pensami per il solo istante di questa giornata di Primavera fugace. Pesca per la tua gente e per le persone a te care. Lotta per la tua felicità quotidiana respirando a polmoni ampi. Centellina con parsimonia il tuo Tempo senza sprecarne un nanosecondo. Ama e fatti amare.

 

Lampedusa, 2 aprile 2012

*A Samia Yusuf Omar

 

Lucia Guida 

INAUGURAZIONE-OLIMPIADI

Photo  Credit: Repubblica.it

Agenzia matrimoniale

Ci sono tanti modi di concepire e costruire un incontro d’amore. Adela, la titolare di un’agenzia matrimoniale del terzo millennio, cerca di unire in tal senso l’utile al dilettevole divertendosi a combinare i desiderata dei suoi clienti per creare nuove coppie a tavolino, in un gioco di specchi in cui molte cose non sono ciò che sembrano.

E’ questa in sintesi la storia di “Agenzia matrimoniale”, racconto breve di qualche anno fa, pubblicato nel mio primo blog Springfreesia

Buona lettura

Agenzia matrimoniale

Adela si sfilò lentamente gli occhiali dalla montatura colorata e dalle lenti non graduate, unico vezzo in un look estremamente classico e rassicurante. Sapeva quanto l’occhio avesse voce in capitolo in certe circostanze ed era decisa a far uso sapiente di questa consapevolezza.

In qualità di unica intestataria dell’agenzia matrimoniale “Cuori solitari” aveva trasformato in necessità lavorativa la virtù posseduta da bambina di favorire il buon esito delle cotte adolescenziali delle sue amiche, offrendosi di buon grado come mediatrice ora come allora. La sua era un’agenzia rigorosamente tradizionale, con pochissimo spazio concesso all’informatizzazione e in cui i profili dei suoi clienti erano ordinatamente conservati in faldoni dalla copertina dal colore diverso che ne individuava la categoria di appartenenza: rossa per i casi di facile collocazione, bianca per quelli di incerta risoluzione, nera per quelle situazioni inquadrate come impossibili o quasi, grigia per le schede di clienti che non era riuscita a mettere bene a fuoco lasciandoli in standby nella speranza che capitasse per loro qualche occasione felice in futuro. Possedeva un ufficio anonimo quanto bastava per dare la giusta idea di privacy a tutti quelli che, nella ricerca del vero amore, quello per la vita, a dispetto di chatlines per single o siti di incontri che imperversavano nel web, continuavano a ricorrere ad approcci più tranquilli e tradizionali, fidandosi del suo buon intuito procacciandosi incontri amorosi scelti sui suoi cataloghi come un tempo avrebbero ordinato un abito o un oggetto acquistandolo per corrispondenza.

Le due sale d’aspetto, una piuttosto piccola e l’altra di ampiezza maggiore, si allineavano a quel tipo di prospettiva; essenziali, completate da piante artificiali, le stesse di un qualsiasi studio notarile o medico, qualche rivista abbandonata su un tavolinetto basso per ingannare l’attesa che poteva a volte rivelarsi lunga prima di un consulto con la titolare.

Il contrasto di quei due ambienti con il suo ufficio era palese. Nella sua stanza tutto trasudava confidenza e familiarità, dal pc sempre spento, alle foto di famiglia sulla scrivania popolata di oggettini tipicamente femminili: fermacarte vivacemente istoriati, cuori di vetro soffiato, una piantina vera. Sulle pareti trovavano posto alcune stampe d’autore, illuminate indirettamente da una piantana relegata in un angolo tra un’altra poltroncina bassa e l’ennesimo tavolinetto. Di fronte alla sedia imbottita di similpelle, riservata agli ospiti, c’era un piattino ben rifornito di cioccolatini alla portata di chiunque avesse voluto servirsene.

In genere l’iter era quello di un colloquio informale in cui lei prendeva scrupolosamente nota dei desiderata della gente, occhiali ben inforcati e solitario ben in mostra all’anulare sinistro. Poi c’era lo spoglio delle schede alla ricerca di una fisionomia che potesse ben combinarsi accompagnato da uno scambio di frasi amichevoli, pronunciate con pertinenza improntate su situazioni di condivisione e complicità, in cui le sue capacità di psicologa dell’animo umano avevano il sopravvento e contribuivano all’impostazione di un clima empatico e partecipativo che rasserenava l’interlocutore predisponendolo positivamente ad accettare l’incontro suggeritogli.

E naturalmente, a fine conversazione, ciliegina sulla torta, il resoconto gustoso, affettivamente colorato, dei rendez-vous sfociati in vere e proprie love story dall’ happy ending, in un crescendo di fiduciose aspettative articolato con maestria dissimulata da malcelata modestia.

Quella sera avrebbe chiuso il suo bilancio giornaliero con una certa soddisfazione. L’incontro tra il medico ospedaliero cinquantenne in cerca di una compagna e l’infermiera trentenne di studio medico associato disillusa da amori veloci e poco appaganti pareva essersi concluso con la promessa da parte dei due di dare un seguito a quella conoscenza. Entrambi le avevano assicurato di tenerla al corrente di ciò che al momento poteva solo immaginare, ne era sicura. Sapeva per certo che non c’è collante maggiore di una solitudine vissuta come pesante zavorra e non più come anticamera di libertà, per legare due persone a stretto filo, dal momento che la convenienza  e l’opportunità hanno, talvolta e per alcuni, lo stesso sapore afrodisiaco e gratificante di una passione genuina. Un po’ come avvolgere in carta preziosa un regalo di media qualità offrendolo a chi si è convinto di trovarvi dentro, una volta apertolo, qualcosa di unico e di raro.

Chiuso il portoncino a doppia mandata, entrò nell’ascensore che la portò con qualche sussulto al pianterreno.

Fuori l’aspettavano le luminarie natalizie predisposte dai negozianti della zona, sfavillanti ai lati dei portici del centro di quella città moderna e distratta. Un tragitto compiuto con un po’ di musica di sottofondo in macchina e poi finalmente a casa dai suoi animali che l’aspettavano e che gioivano del suo rientro riempiendo spazi e tempi della sua quotidianità con appagante presenza. Libera di sfilarsi dall’anulare quell’anello di brillanti indossato a mo’ di specchietto per le allodole, prima di conservarlo in un cassetto del trumeau di camera assieme a quegli occhiali trendy e civettuoli di molta apparenza e poca sostanza che tanto contribuivano al suo phisic du rôle di manager dei sentimenti altrui.

Fino al lunedì successivo, giorno di riapertura dell’agenzia, e in occasione della sua prossima consulenza in qualità di appaiatrice di anime più o meno gemelle.

Lucia Guida

 

in foto acquerello di Muramasa Kudo