Case dell’anima

di luciaguida

Nelle mie storie la casa, intesa come concentrato di sensazioni e stati d’animo personali, è sempre una sorta di “ locus amoenus “  a revers caratterizzato dall’affettività dei personaggi che la popolano, spazio ideale in cui poter essere per quello che si è realmente, senza limitazioni di nessun tipo. Soprattutto senza dover fingere ciò che non si è. Nel mio immaginario trovano posto con eguale imparzialità case antiche e moderne; ciò che a me importa realmente è che riflettano il temperamento e il carattere di chi le abita, rappresentando nel contempo luogo d’evasione e rifugio ideale dalle piccole e grandi contrarietà di tutti i giorni.

Nel racconto breve che sto per presentarvi Carla, la protagonista, ha la possibilità di tornare indietro nel tempo grazie a un dono imprevisto: una casa d’epoca ricevuta in eredità. Rinunciando a venderla, come all’inizio progettato, per  tenerla per sé. Scegliendo di guardare con occhi consapevoli a un presente connotato dal gusto forte e deciso di un passato riscattato appieno

 

In dono

Carla aprì con uno scatto deciso il portoncino di quella casa. Ne era diventata proprietaria all’improvviso e con così poco preavviso da non rendersi ancora del tutto conto che sua  zia Rachele le aveva lasciato in eredità quella villetta in stile liberty con un gesto di munificenza dovuto, forse, anche al fatto di essere stata la sua madrina di battesimo.

La comunicazione le era arrivata  con una laconica telefonata della segretaria di un notaio dal nome antico e  altisonante che la informava di essere tra gli eredi della signorina Cataldi, sorella di sua madre, destinata da sempre al nubilato per imprecisate ragioni di famiglia; un personaggio decisamente singolare ed eccentrico nel suo conclamato tradizionalismo. Le loro frequentazioni, intense e doverose dai tempi dell’infanzia erano divenute piuttosto sporadiche, soprattutto negli ultimi tempi.  Fino a trasformarsi in incontri occasionali intitolati alla celebrazione di matrimoni  o funerali.

Probabilmente era per questo che la notizia l’aveva colta del tutto impreparata giungendo, per altro, alla fine di una giornata complessa e piena di situazioni tortuose che l’avevano a lungo tormentata fino a quando la sua mente, probabilmente per sfinimento, non aveva elaborato soluzioni idonee di una semplicità disarmante. Quel tipo di spiraglio che talvolta ti si prospetta quando non sai più a che santo votarti e sei sul punto di cedere le armi.

Dopo lo stupore iniziale aveva brevemente ringraziato la sua interlocutrice, assicurando di richiamarla a breve per approfondire i dettagli di quell’evento di cui al momento non era in grado di cogliere la pregnanza perché troppo stanca per farlo.

L’aveva fatto con diligenza il giorno successivo e dopo circa una settimana, tempo necessario per lo studio notarile per sbrigare le formalità del caso, aveva ricevuto da un anonimo corriere un plico di documenti da firmare accompagnati da un mazzo di chiavi e un biglietto scritto di pugno dal professionista che la pregava di recarsi con sollecitudine sul posto per rendersi conto di persona di ciò che in sorte le era toccato.

Il villino era composto da due piani e sorgeva nel nucleo antico di quel paese di provincia in cui per una vita intera si era sdipanata l’esistenza di quella donna divisa tra la cura dei suoi genitori, i suoi nonni, e quella di una sorella minore di salute cagionevole che l’aveva lasciata prima che lei, Carla, nascesse. E lei, giunta tardivamente in un periodo in cui sua madre si apprestava a far la nonna a tempo pieno più che la mamma, ne aveva ereditato il nome. L’arrivo inatteso di quella bimba, quasi coetanea del suo primo nipotino, era stato accettato con stoicità da tutti, contribuendo a regalare a sua madre nuova linfa vitale e ai suoi parenti un nuovo e durevole argomento di conversazione.

Carla sostò per qualche istante nell’ingresso minuscolo rischiarato da una finestra laterale stretta e lunga, ripercorrendo a memoria quegli ambienti conosciuti a menadito prima di farlo realmente con passo lento e ponderato.

Il pianterreno era strutturato in un salotto,  un cucinino a ridosso di un tinello e una stanza quadrata, la camera del cucito, in cui le sue abitanti erano solite riunirsi per confezionare e ricamare capi di corredo destinati alle giovani donne in odore di nozze della famiglia. Al piano superiore, a cui si accedeva per il tramite di una scala dai gradini di marmo e dalla ringhiera arabescata in volute di ferro, c’erano la stanza da bagno e tre  ampie camere da letto. Lei ricordava ancora l’albero di platano che occhieggiava da una finestra delle tre camere, promettendo verde e ombra a sufficienza nelle calde giornate estive a chiunque avesse deciso di trascorrere ore di relax  nel piccolo giardino a ferro di cavallo che circondava la costruzione.

Il pavimento era quello  di sempre, costituito da mattonelle di cotto che in ogni ambiente si riunivano al centro della stanza per dar vita a ordinate simmetrie geometriche; certamente un po’ logore ma non prive di un certo fascino, quello delle cose senza tempo impregnate di ricordi scanditi dal ticchettio di un orologio da tavolo, da un odore indefinito di pietanze cucinate o di lavanda spigata conservata un po’ dappertutto.

Con una sensazione indefinibile dal sapore fané  ammise con se stessa di non sapere cosa fare di quel dono inaspettato. Certo aveva provato una punta di rimorso nell’attimo in cui, per il tramite di quel gesto generoso, aveva scoperto di essere ancora nei pensieri di quella parente visitata da bimba e adolescente con la sistematicità dovuta a una brava ed educata figlioccia. Non c’erano stati un Natale, una Pasqua, genetliaco o onomastico, in cui avesse mancato all’appuntamento, spesso accompagnata da una delle sue sorelle per richiesta di sua madre,  ben lieta di farsi sostituire, in quelle ricorrenze, da una delle figlie maggiori.

Poi per Carla erano arrivati gli anni giovanili dell’affermazione; dopo l’università era andata a lavorare all’estero conoscendo pezzi di mondo ad ampio spettro, richiamata all’ovile da un fidanzato impaziente di impalmarla da cui si era, dopo alcuni anni di matrimonio, separata. In quella circostanza la sua madrina aveva tuonato, spronandola spesso a riconciliarsi con suo marito, fino a perdere definitivamente ogni speranza quando lei, sempre telefonicamente, le aveva dato notizia dell’ottenimento del divorzio. Si era spesso soffermata sulla foga messa dall’anziana donna nei suoi  persuasivi discorsi; un impeto che mal si contemperava con l’esigua esperienza in materia di uomini da quest’ultima posseduta. Ciò non le aveva però impedito di percepire che, dietro a quei toni accesi ci fosse la genuina preoccupazione  che lei potesse rimanere sola, in balia degli eventi, senza un’adeguata e protettiva spalla maschile su cui poggiarsi. Quella che a suo tempo  a lei  era mancata, condannandola ad un’esistenza dedicata alla cura di anziani familiari bisognosi di assistenza continua e nipoti concepiti come figli putativi da gratificare e da guidare con la tecnica del bastone e della carota.

Richiudendo a fatica una persiana scrostata che aveva conosciuto tempi migliori  si disse che l’esplorazione della sua nuova proprietà era finalmente terminata. La casa aveva bisogno di urgenti e radicali riparazioni; i rubinetti dell’ampio bagno superiore avevano finito col macchiare irreparabilmente  di ruggine lo smalto immacolato del lavabo e della monumentale vasca da bagno con i piedi, suo sogno proibito  di  ragazza romantica.

Tracce grigie di condensa dovute a imposte tenute caparbiamente  serrate negli ultimi tempi segnavano impietosamente il candore  e le tinte pastello dei muri di buona parte delle stanze. Il giardino in cui un tempo, stagione dopo stagione, rifiorivano ciclamini nani  e ciuffi di mughetti, adagiati ai piedi di un paio di alberi secolari, era ridotto a un ammasso di rampicanti prepotentemente in rigoglio e di erba infestante cresciuta con vigore inaudito.

Seduta sul sofà foderato di cretonne fiorato dai toni addolciti dal tempo pensò alla fatica fisica e mentale che avrebbe richiesto ristrutturarla e agli infiniti e svariati accomodi  a cui avrebbe necessariamente dovuto sottoporla. Suo malgrado le era infatti balenata l’idea di poterla tenere per sé. Poteva anche provare a convincere i suoi figli a seguirla, magari solo per qualche volta nei fine settimana; prefigurando una serie di rimpatriate collocate in una dimensione temporale che ora non c’era più e che le sarebbe piaciuto in qualche modo ricreare. L’alternativa sarebbe stata, del resto, affittarla, pur non essendo del tutto certa di riuscirvi in maniera soddisfacente:  accingersi a trovare degli occupanti che se ne innamorassero per quella che era, senza inutili e pretenziose sovrastrutture, non era cosa di facile risoluzione.  Il villino di zia Rachele era austero e solido come la sua originaria padrona di cui aveva conservato i tratti severi, rigorosi. Apprezzato probabilmente soltanto da chi, penetratane l’essenza, fosse riuscito a respirare l’aria che conteneva, forte e inebriante come un sorso di quel rosolio fatto in casa, conservato  nella bottiglia di cristallo dal tappo tondeggiante in credenza e offerto ai pochi ospiti che osavano varcarne  la soglia.

Nella sua progettualità immediata non era riuscita, tuttavia, a pensare di alienarla vendendola al miglior offerente; semplicemente perché la sua mente rifiutava di contemplare una simile opzione. Quella dimora ospitale e silenziosa, fortemente accattivante nella sua apparente severità era il suo personale pezzo d’infinito a cui  nell’arco di quel pomeriggio aveva scoperto di non voler rinunciare per nessuna ragione al mondo.

Con un piccolo sforzo tirò dietro di sé il portoncino d’entrata formulando a mezza bocca quasi con discrezione un arrivederci.

Nella tasca del suo impermeabile le pesanti chiavi tintinnarono con complicità, solidali. Per ricordarle che esistevano ancora infinite possibilità di riscatto, che ci sarebbero state ancora e a lungo.

A cominciare da quel tepore insolito in una giornata di metà novembre e dai colori caldi, amichevoli di quell’autunno senza tempo, sospeso nell’aria, sorprendentemente indulgente.

Lucia Guida

 

 

photo by blueprincess